Celebrazioni critiche del centesimo anniversario della Prima Guerra Mondiale
Con il duemilaquattordici hanno avuto inizio le celebrazioni del centesimo anniversario della Prima Guerra Mondiale, un evento che ha cambiato la storia dell’Europa e che ha segnato indelebilmente il futuro del nostro paese e del mondo intero.
In questi cento anni, storici, politici e varie personalità hanno dato le più articolate interpretazioni dell’evento, a partire proprio dalle parole che quei giorni pronunciò Benedetto XV che parlò della “più fosca tragedia dell’odio umano e dell’umana demenza”, oppure ripartendo da quelle di un caporale dei bersaglieri di Asti che la definì “regno della morte” e per questo fu condannato a due mesi di carcere per lettera denigratoria.
Oggi, con lo scomparire dei protagonisti di quegli anni, si è man mano affievolito il ricordo dei drammatici eventi connessi a quella guerra, ( ricordo fino a qualche anno fa ancora molto forte), e sembra diffondersi nel senso comune l’idea che si sia trattato di un evento ormai lontano e storicizzato, nei confronti del quale non è più significativo indagare e capire i motivi che lo hanno generato ne come questa tragedia si sia sviluppata e soprattutto quali successivi e più inumani eventi abbia poi causato.
In occasione del centesimo anniversario di quel conflitto le pubblicazioni sulla prima guerra mondiale hanno avuto un forte incremento, tra queste mi preme segnalarne due che danno un contributo, a mio avviso qualitativo, arricchendo la fila degli sguardi critici nei confronti del primo conflitto mondiale.
La prima di queste è il diario di Luigi Fabbri “La prima estate di guerra. Diario di un anarchico 1 maggio – 20 settembre 1915” (BFS Edizioni) a cura di Massimo Ortalli, un documento memorialistico rimasto chiuso nei cassetti dell’archivio familiare per molti anni, poi pubblicato per volontà della figlia Luce. Luigi Fabbri è stato uno dei più importanti collaboratori di Errico Malatesta e uno dei più attivi e vivaci protagonisti della storia dell’anarchismo italiano che, tra i vari incarichi, ha ricoperto anche quello di direttore di “Umanità nova” ( giornale anarchico fondato da Enrico Maltesta).
In questo diario Fabbri segue e commenta con passione ed estrema attenzione il dibattito tra interventisti e anti-interventisti che animò la politica e la cultura dell’epoca. Fabbri vive il dibattito forte della propria convinzione antimilitarista e della propria opposizione ad ogni forma di totalitarismo tanto che, successivamente, con l’avvento del fascismo, fu costretto, dopo aver subito alcune aggressioni fisiche, al definitivo esilio in Uruguay dove morì nel 1935.
Poveri giovani! Protestano, ma… partono! […] non sanno che, appena lontani dal loro paese, rinchiusi nelle caserme o negli accampamenti, ogni loro volontà sarà spezzata ed annullata e, nei quadri, diventeranno niente più che una passiva ruota del sanguinoso ingranaggio militarista.
Tra le tante riflessioni ed osservazioni di questo diario colpisce, a margine di un commento su un articolo pubblicato da un’ interventista, l’osservazione – di straordinaria attualità – di come nel dibattito sull’intervento non si cerchi mai di convincere l’interlocutore con argomenti “logici, positivi, matematici”, ma di come sia invece sempre più frequente il ricorso all’impressione e alla trasfusione di sentimenti spesso esaltati e invasati; insomma una pratica della persuasione che si esplica attraverso affermazioni di paradossi e non di dimostrazioni razionali e logiche. Una guerra che, oltre a provocare una tremenda carneficina, si prepara a sferrare, come sostiene l’anarchico Fabbri, un nuovo colpo alle libertà individuali dei cittadini.
E’ così è stato. Ce lo racconta Marco Rossi nell’altro volume che vorrei presentare: “Gli ammutinati delle trincee” anche questa una pubblicazione della Bfs Edizioni di Pisa. Uno studio che ci apre lo sconosciuto mondo delle trincee nelle quali sono stati “imprigionati” ed hanno combattuto cadendo i figli dei ceti popolari, delle classi subalterne sulle quali, in ogni paese, è sempre ricaduto il lutto della guerra. Rossi racconta la storia di chi non si volle sottomettere alla violenza della guerra, dell’esercito e della monarchia, di un sistema che li mandava al massacro e li voleva assassini di altri sfruttati. Nonostante le speranze di una breve durata del conflitto, alimentate dalla propaganda interventista, i militari al fronte capirono presto che si trovavano di fronte ad una guerra sanguinosa e interminabile, voluta dai potenti e combattuta tra poveri, immolati al fronte senza alcuno scrupolo e nessuna pietà. Questo ci testimonia, con una sintassi un poco sgrammaticata, un soldato in una lettera dell’aprile del 1917: «Se ti rivasse notizia che sono morto, non dire che sono morto per la Patria, ma che sono morto per i signori, cioè per i richi che sono stati la causa di tanti buoni giovani, la colpa della sua morte»
La propaganda anti-interventista, sconfitta nel dibattito pre-bellico così come raccontato nell’altro volume da Luigi Fabbri, riesce con il tempo a far passare l’idea – soprattutto tra i militari in trincea – che era possibile mettere in atto pratiche di rifiuto del “dovere sacro” sul fronte, dove alcuni sfruttatori comandavano e molti sottoposti obbedivano a discapito della propria vita. I dati della repressione del comando dell’esercito sui soldati – riportati nello studio di Rossi – sono veramente agghiaccianti: 870 mila soldati furono denunciati, tra i quali 470 mila per renitenza; 170 mila militari furono condannati, di cui oltre 111 mila per diserzione; 220 mila furono le condanne a pene detentive tra le quali 15 mila per ergastolo; 4.028 le condanne a morte di cui 750 eseguite. Un numero quest’ultimo assai superiore alla 50 esecuzioni della Germania e alle 330 della Gran Bretagna nonostante una più lunga partecipazione al conflitto.
L’armistizio firmato dalle forze belligeranti e la successiva pace lasciarono ferite non rimarginabili tra stati, tra popoli e all’interno degli stessi popoli, aprendo presto la strada a regimi totalitari ed oppressivi e ad una prossima guerra ancora più violenta e drammatica.
Oggi agli anti-interventisti come Luigi Fabbri e alle centinaia di migliaia di soldati che , come ci racconta Rossi, hanno combattuto nelle trincee e sono caduti, dobbiamo molto; molto più che una ghirlanda di alloro il 4 novembre. Dobbiamo la promessa contenuta nel ragionamento di Sigmund Freud in risposta alla sollecitazione di Albert Einstein, quando, nel 1932, alla domanda se c’è un modo per liberare gli uomini dalla guerra, rispose così: “quanto dovremmo aspettare perchè anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.”
Quell’evoluzione civile che, aggiungiamo noi, riteniamo opportuno declinare così: uguaglianza, libertà e giustizia sociale.
Massimiliano Bacchiet
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