Al Lu.C.C.A. fino al 30 agosto
“Elliott Erwitt. Retrospective”
«Un professionista per mestiere e un dilettante per vocazione». Queste le parole in apertura di “Elliott Erwitt. Retrospective”, l’ultima mostra lucchese sul grande fotografo statunitense. La mostra, a cura di Maurizio Vanni, organizzata in collaborazione con Magnum Photos e prodotta da MVIVA, è ospitata nel Lu.C.C.A. – Lucca Center of Contemporary Art e fruibile dallo scorso 18 aprile fino al prossimo 30 agosto.
136 scatti raccontano gli oltre 60 anni di carriera di uno dei più grandi ricercatori visivi della nostra epoca. Nato a Parigi nel 1928, Elio Romano Erwiz, in arte Elliott Erwitt, è stato un grande viaggiatore e quel mondo che ha visto in prima persona l’ha raccontato attraverso i paradossi, le illusioni di emancipazione, le ridicole esternazioni asettiche del perbenismo borghese, piuttosto che le incongruenze e i contrasti di abitudini sociali ritenute comodamente utili.
Un bambino se la ride, nel farlo si punta una pistola alla tempia;
in Carolina del nord, nel 1950, esistono ancora bagni pubblici con due lavandini: il tubo di scarico di quello per i bianchi è il rubinetto di quello per i neri; un’elegante signora con encomio da english upper class sorride rassicurante, mettendo in pratica la più raffinata dose di british understatement. Il cane che ha tra le braccia digrigna i denti, svelando gli esiti più naturali di un’atteggiamento abituato a vestire i panni del buonsenso da salotto privato.
Erwitt è un fotografo, un pubblicitario, un grande documentarista della sua epoca, ma ciò che più emerge dalla sua opera è il suo essere uomo, la sua grande capacità comunicativa che passa per le immagini: i suoi scatti vivono nell’intensità di una battuta ironica e amara durata pochi secondi ma memorabile nel tempo. Con l’abilità del cantastorie, Elliott Erwitt ritrae vizi e virtù a portata di obiettivo:
«Immortalo ciò che vedo. Potrei dire che è una sorta di diario dei miei ultimi sessant’anni. Alcune immagini fanno parte di lavori che mi avevano commissionato, altre no, sono state scattate semplicemente perché mi piace fotografare».
– E.Erwitt
Un grande professionista che ha formato la sua esperienza e il suo know-how contando anche sull’importante influenza di Rober Capa, Edward Steichen, ma sopratutto Henri Cartier Bresson, grande ispiratore della sua opera. Il sottile fil-rouge che lega tutte le 136 stampe fotografiche, esposte nelle sale del Lu.C.C.A., risponde al bisogno di mostrare un aspetto innegabile della realtà: le sue contraddizioni.
La fotografia di Erwitt è ossimorica, descrive situazioni diametralmente opposte, lasciando che convivano per giustapposizione nel momento di un’unica stampa. La scelta del bianco e nero innesca, nell’immaginario dell’osservatore attento, come di quello più sbrigativo, un implicito sentimento di solennità, risponde alla volontà di assegnare gli scatti di Erwitt alla grande categoria dei “classici di sempre”.
Le scene costruite sono poche, quelle ricercate ancor meno. È sempre evidente una certa naturalezza: camminando per strada può capitare di sentirsi rivivere sotto la lente dell’obiettivo erwittiano, quelli che lui descrive sono archetipi universalmente riconoscibili, imprescindibilmente comprensibili.
Il continuo riferimento al vivere quotidiano – più o meno recente – viene mostrato secondo schemi tridimensionali, nella composizione e nell’ideologia: la realtà è svelata in ogni suo aspetto, secondo una visione dialettica e dicotomica, dove convivono bene e male, umano e animalesco, la vita e la morte, il bianco e il nero…
C’è un’ immagine che meglio di ogni altra può spiegare la visione del mondo erwittiano: il “pianoforte”, termine composto da due parole dai significati assolutamente opposti che arrivano a convivere perfettamente in un’unica idea, dall’ottimale equilibrio ideologico oltre che formale: immaginando il suono emesso da questo bellissimo strumento, ecco che la parola “pianoforte” suonerà unica ed inseparabile. È quello che avviene nelle immagini di Erwitt, dove concetti opposti e antitetici appaiono uniti nella stessa fotografia, arricchendone il significato. Il sorriso innocente di un bambino può convivere con la freddezza di un’arma automatica, allo stesso modo in cui ciò che è stato costruito con il sudore delle generazioni passate, può essere negato dalle generazioni successive con un gesto tanto grave quanto istintivo quale un dito che fa pressione sul grilletto di una pistola.
Una ricerca, questa, che risulta estremamente spontanea, assolutamente legata alla grande sensibilità artistica di Erwitt:
«Io non indago, scatto semplicemente, se le immagini assumono un significato per l’osservatore mi sta bene, ma va bene anche se ciò non accade. Quelle che mi stai mostrando, in un certo senso, posso dire di averle realizzate al volo. Sono basate su varie osservazioni che in fin dei conti è tutto ciò di cui la buona fotografia è fatta: principalmente osservazione dei fenomeni.»
-E.Erwitt
I fenomeni raccontati da Erwitt nel corso dell’esposizione provengono da ogni parte del mondo:
1994, nelle sale museali del Prado, la differenza più grande tra il Goya della Maya Vestida e quello della Maya Desnuda risiede nel genere di visitatori che le osservano;
nel 1957 a Karlsruhe, in Germania, un uomo rientra a casa dopo una faticosa giornata di duro – e sottopagato – lavoro, concedendosi un momento di piacere davanti alla vetrina di una motocicletta che non potrà mai comprare;
nel 1974, allo Air and Space Museum, in Alabahma, un distributore della Coca-Cola si sente perfettamente a suo agio accanto a dei razzi spaziali;
nel 1961, a Brasilia, degli uomini maledicono la loro automobile guasta, accanto a loro, dei cavalli. È il progresso a renderti incapace di tornare indietro?
Nel 1949, in Toscana, un uomo anziano viene fotografato mentre osserva una bara da una curiosa prospettiva: da sotto, sdraiato.
Poi il mare, che torna sempre, dalla Cambogia, a Valencia, da Rio de Janeiro a Brighton, fino a Santa Cruz;
nell’Arlinghton del 1963 si celebrano i funerali di J.F.Kennedy: Jackie è una donna distrutta dal dolore, eppure ancora una volta se ne possono scorgere i segni della leggendaria bellezza.
Nel 1954 ad Armonk, New York, Julia, la madre di Robert Capa, piange sulla tomba del figlio, il dolore è raccontato con poesia.
La fotografia di Erwitt è fatta di istanti rubati alla vita e trasformati in eternità. Un fotografo, un maestro, un giudice tecnico impeccabile; come lui stesso dichiara, spesso si trovò a scattare numerose foto per poi sceglierne una soltanto: di solito la migliore dal punto di vista tecnico, anche se apparentemente priva di senso, dopotutto l’importante è che
«Tutte le immagini dovrebbero essere se non perfette, per lo meno bilanciate, graficamente e geograficamente corrette. La composizione è assolutamente fondamentale e basilare per qualsiasi fotografia.»
-E.Erwitt
Da qui l’ironia della sua opera, dove spesso e volentieri i protagonisti sono gli animali catturati nella spontaneità di un attimo mentre compiono movimenti e assumono espressioni a dir poco curiose e divertenti.
Elliott Erwitt è il tipo di fotografo che più si avvicina al comportamento di un inguaribile viaggiatore: scattare, scattare, scattare e poi, successivamente, riflettere, ideare.
«Le Idee vengono dopo che l’immagine è stata realizzata. Credo che la maggior parte delle volte sia andata così: ho scattato delle foto in base al mio istinto e poi in seguito ho fato delle considerazioni al riguardo»
– E.Erwitt
La fotografia è innanzitutto vita, istinto, manifestazione di una sensazione, emozione pura:
© E.Erwitt, California, USA, 1955, Courtesy of Magnum Photos
«Nei momenti più tristi e invernali della vita, quando una nube ti avvolge da settimane improvvisamente la visione di qualcosa di meraviglioso può cambiare l’aspetto delle cose, il tuo stato d’animo. Il tipo di fotografia che piace a me, quella in cui viene colto l’istante, è molto simile a questo squarcio nelle nuvole, In un lampo, una foto meravigliosa sembra uscirne fuori dal nulla»
– E.Erwitt
Ringraziamo la Magnum Photos per la gentile concessione delle immagini.
G.Buscemi, F.Bertolucci
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