“Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Perché i bambini lo sanno già. Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti”.
(Gilbert Keith Chesterton)
Nell’ultima uscita di Tuttomondo avevamo parlato di poesia Haiku e del suo impiego come forma di scrittura terapeutica. Mi sembrava interessante approfondire ulteriormente il tema, soffermandomi, questa volta con maggiore attenzione, sul ruolo centrale che il racconto simbolico può avere come cura e comprensione di se e della propria storia.
“C’era una volta…” è l’espressione rituale con cui iniziano tutte le fiabe tradizionali.
La nascita della favola si perde nella notte dei tempi e risponde al bisogno connaturato e ineludibile nell’uomo di narrare, di dare forma ed espressione ai misteri e alle grandi domande dell’umanità.
Le fiabe sono un’insieme di molteplici frammenti che affondano le loro radici nella tradizione popolare. Frammenti da collegare poi a un contesto e una cultura. I fratelli Grimm, non a caso, paragonavano la fiaba a “un cristallo andato in frantumi, i cui frammenti giacevano sparsi sull’erba”.
Le fiabe appartengono alla dimensione dell’oralità e costituiscono il patrimonio culturale collettivo di una comunità, che da queste apprendi vizi e virtù e modelli di comportamento.
La grande fascinazione che ancora oggi la fiaba suscita, a tutti i livelli e nelle sue diverse forme, deriva proprio dalla sua struttura metaforica capace di trasferire, ieri come oggi, in un altro tempo e in un altro spazio, spesso indefinibili, la ricerca di senso dell’individuo.
Il dibattito per giungere a dare una definizione esaustiva di metafora è stato lungo, ha coinvolto filosofi, linguisti e psicologi.
Ciò dipende dalla inafferrabilità del concetto stesso di metafora, la quale, come sottolinea la sua etimologia greca, si caratterizza per essere al di là, oltre quello che è immediatamente comprensibile su un piano logico.
Se con Aristotele si parla di metafora intesa come ornamento del discorso in grado di operare una sostituzione di termini, con Vico e Nietzsche si è affermata l’idea che la metafora costituisca una vera e propria modalità del procedere stesso del pensiero.
Il nostro stesso parlare è un parlare figurato in cui la metafora assolve il ruolo di ponte tra due piani di pensiero: quello logico-razionale e uno dominato dalla sensibilità.
La metafora costituisce l’anello di congiunzione, il ponte tra questi due livelli dell’attività cognitiva. Le metafore sono degli intermediari per dare forma logica a ciò che appartiene all’emotività e alla sensibilità. La metafora strumento del pensiero.
Per tutte queste sue caratteristiche la metafora ha trovato ampio spazio anche nell’ambito della psicoterapia cognitiva.
La metafora, ponte tra linguaggio logico e simbolico, diviene il mezzo per creare un canale comunicativo fra paziente e terapeuta, via di accesso al flusso di pensieri, emozioni e sentimenti in grado di costruire un’ alleanza curativa.
Quale è la forza della metafora?
La metafora è viva e permette al paziente di riconoscersi nella sua storia, di guardarla sotto angolature nuove e con il distacco tale da permettergli di riscrivere il senso del proprio dolore.
Inoltre la metafora, data la sua componente simbolico-emozionale, come sostiene Littmann, diviene la chiave di accesso all’inconscio del paziente per eludere la sorveglianza delle difese e per aggirare la resistenza.
La forza della metafora come strumento terapeutico sta proprio nella capacità di accedere a quella dimensione affettiva che altrimenti sarebbe troppo difesa per essere raggiungibile. Si tratta di quella componente che Bettelheim ha così ben descritto nel suo libro sulle fiabe e cioè quella parte della persona che desidera scoprire cose nuove, ma allo stesso tempo, sente l’esigenza di proteggersi dai possibili esiti negativi di tali scoperte.
Tutta la tradizione psicanalitica, dall’interpretazione dei sogni di Freud in avanti, si fonda sull’idea che il linguaggio figurato permetta di superare le resistenza del paziente rispetto all’accesso alla propria esperienza traumatica.
La metafora, con il suo potere evocativo, da un lato lavora al livello pre-verbale dell’inconscio, senza doverlo decodificare o spiegare, dall’altro permette una sua elaborazione più creativa e libera da parte di chi si fa depositario di tale inconscio e cioè il terapeuta.
La metafora è in grado di attivare la creatività del soggetto, di metterlo di fronte alla possibilità di comunicare il proprio vissuto, trasferendolo fuori di sé e secondo una forma che il terapeuta sarà in grado di elaborare per fornire delle soluzioni.
Inutile soffermarsi sul valore altamente simbolico della favola, dei racconti che da piccoli ci accompagnavano nel sonno. Le fiabe dicono molto: rappresentano dei modelli di comportamento, illustrano riti di passaggio, delineano, in forma simbolica, i momenti della nascita, crescita e morte dell’individuo. Dietro mondi e figure immaginarie si getta luce anche sugli aspetti più bui e su tanti dei tabù della nostra società.
Per tutte queste ragioni, la potenza espressiva e immaginifica della parole affascina l’uomo fin dalle origini, risponde al suo bisogno di raccontarsi e di dare un senso a ciò che la logica non è in grado di spiegare.
Ciò è stato sfruttato con successo nell’ambito della cosiddetta medicina narrativa, la quale valorizza il ruolo relazionale e terapeutico del racconto dell’esperienza di malattia da parte del paziente, il quale la consegna, per condividerla, al medico cui si affida.
Tale scambio funziona a un duplice livello: da un lato permette al paziente di dare un nuovo senso al proprio vissuto, dall’altro consente di cementificare il rapporto medico-paziente, di individuare un canale comunicativo in grado di aiutare il medico a comprendere e rielaborare la storia clinica del malato.
In Italia la medicina narrativa viene utilizzata in maniera sistemica oramai da alcuni anni ed è la dimostrazione di come dietro ogni dolore ci sia l’opportunità per ognuno, attraverso la propria forza creativa, di farne storia, esperienza. La narrazione come momento attraverso il quale riscoprire la propria dignità di persona e attraverso cui riuscire a guardare con occhi più lucidi e il cuore meno dolente la propria storia.
L’anima ha bisogno di un approdo sicuro, di riacquistare nuovo vigore, laddove ne abbia perso, e ciò non è possibile se non si mette la persona al centro della cura tanto del corpo quanto della mente.
Ogni paziente è prima di tutto una persona e la persona va valorizzata: ad essa va restituita il valore della propria individualità. Il paziente necessita non solo di cure e risposte, ha bisogno anche e sopratutto di ascolto, di lasciarsi andare e consegnare all’altro, a chi può reggerlo, il proprio dolore. E laddove tale dolore sia troppo acuto e pungente, trasfigurarlo in personaggi simbolici che si muovo in un mondo immaginario, dischiuso dalla nostra fantasia, può essere un modo efficace per superare resistenze, sconfiggere i timori e mettere in gioco pienamente se stessi.
A volte il dolore è troppo forte per verbalizzarlo, razionalizzarlo, giustificarlo. La sofferenza per nessuno può essere ragionevole, opportuna, ammissibile, ma esiste e penetra prima o poi nella vita di tutti. Siamo uomini nel mondo, esposti alla gioia e al dolore, alla salute e alla malattia, e la vita, con le sue infinite oscillazioni, non può essere aggirata, ma va vissuta anche quando fa male viverla.
Ma se non esiste riparo dal dolore, se nessuno di noi è immune dal danno, è in nostro potere dare un senso a questo dolore. La nostra sofferenza può divenire racconto, narrazione, parola che cura, guarisce, risana, ordina e conforta.
Perché se “Il dolore è – come dice lo scrittore Erri de Luca – una prigionia da scontare che non ha scorciatoie né ricorso a domande di grazia. Se è una distanza che va per forza di cose affrontata e percorsa con i propri piedi”, allora, chissà, si può decidere di percorrere questa distanza, avendo al proprio fianco come compagno di viaggio, la parola che cura e risana.
Biancamaria Majorana
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ciao, mi sono piaciute molto queste considerazioni sulle favole. E’ un approfondimento scrupoloso e serio, che io condivido completamente. Avere gli strumenti per riuscire ad affrontare le tempeste della vita, che a volte sono anche terribili è fondamentale anche se al giorno d’oggi non so perchè siamo tutti molto fragili di fronte ad ogni problema, anche piccolo, che troviamo sulla nostra strada. Ti seguo con grande interesse, ho letto la recensione del libro “La pioggia prima che cada”, mi ha intrigato e senz’altro lo leggerò, appena mi è possibile. Grazie e buon proseguimento.
Ciao, intanto mi scuso per il ritardo nel risponderti. Grazie per l’attenzione e l’apprezzamento. Il tema mi appassiona ed interessa molto e per questo ho intenzione di approfondirlo, anche qui nella rivista, molto presto. Si hai ragione oggi siamo tutti molto, troppo fragili e credo che avere gli strumenti per affrontare le avversità sia fondamentale. E per affrontare i problemi, ci vogliono prima di tutto le parole per esprimerli. Se l’argomento ti interessa, ti consiglio un libro molto bello. Si intitola Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès. Un caro saluto