Intervista a I Fiori di Hiroshima
Nabuk, oscurità e cantautorato per il loro primo disco
I Fiori Di Hiroshima nascono a Casciana Terme, in provincia di pisa, nel 2011 da un’idea di Elia Vitarelli (voce e chitarra) e Jacopo “Lapo” Priami (batteria). Poco dopo ai due amici si aggiunge il bassista Giovanni Giuntini, che completa così il trio. Il gruppo inizia il proprio percorso con questa formazione, con l’idea di suonare pezzi inediti prendendo spunto dalla scena musicale indipendente italiana. Dopo vari concerti nella primavera del 2012 il gruppo si amplia con l’arrivo di Alessandra Martinelli seguito da quello del chitarrista Daniele Lapi con cui iniziano una stagione di diversi live. Nel 2013 la band già avviata subisce però un punto di svolta a causa di vari cambiamenti di formazione: il bassista Giovanni Giuntini lascia il gruppo e al suo posto entra Alberto Cavallini, e lo stesso accade con Alessandra Martinelli che lascia un posto vuoto alle tastiere. Nei primi mesi del 2014, nonostante vari cambiamenti e abbandoni, i ragazzi riescono a registrare il loro primo EP ufficiale, intitolato I Fiori di Hiroshima…
Oggi I Fiori di Hiroshima sono quattro ragazzi grintosi, teatrali e ben strutturati musicalmente: Elia Vitarelli (voce, chitarra e tastiere), Jacopo “Lapo” Priami (batteria), Daniele Lapi (chitarra elettrica) e Alberto Volpi Ramos (basso). Cosa è successo da quel momento a oggi, a Nabuk, ve lo raccontiamo in questa intervista che ho avuto modo di fare ai ragazzi dopo averli conosciuti e aver condiviso con loro il palco in un live pisano… Che Nabuk sia con voi! Buona lettura…
Sta per uscire il vostro primo album, Nabuk. Mi ha incuriosito molto il nome che avete scelto. Ha a che fare con Nabucodonosor? Spiegatemi questa scelta…
In realtà no. Non ci avevamo pensato. Ci piaceva l’idea di “battezzare” il disco con un nome proprio tutto suo, e Nabuk ci è sembrato appropriato. Non sappiamo bene il perché, ma riesce a comunicare quel senso di “cupo” che infesta un po’ il disco. Tutto qui.
Volete raccontare ai nostri lettori una piccola anticipazione dei contenuti dell’album?
Nel disco ci sono 5 pezzi, 4 inediti e una cover ovvero “Datemi un martello” di Rita Pavone. Ci è sembrato buffo rifare questo pezzo inizialmente, perché ascoltandolo ci siamo resi conto che nel testo c’era molta violenza, di conseguenza abbiamo ritenuto opportuno dargli una chiave di lettura più “scura” . L’ultima traccia è Nabuk, lo strumentale che da il nome al disco, probabilmente quella che preferiamo.
Come avete scoperto l’etichetta e collettivo artistico Phonarchia e come è stato il vostro primo approccio alla produzione all’interno di essa?
Seguivamo il collettivo già da tempo, ma la collaborazione è nata dopo l’incontro con Nicola Baronti, produttore artistico di Phonarchia. Dopo la partecipazione al red contest nel 2014, ci invitò in studio ed abbiamo iniziato a lavorare insieme poco dopo, nel gennaio del 2015. Il primo approccio è stato piuttosto insolito…Entrare in produzione è sicuramente un modo importante di mettersi in gioco, soprattutto mettersi in discussione ed aprirsi ad un nuovo modo di lavorare. La produzione artistica, in questo senso , ci ha un po’ salvati.
Solitamente come lavorano I Fiori di Hiroshima quando compongono ex novo i loro pezzi?
Non è che ci sia un metodo fisso, ma in linea di massima tutto nasce da un’ idea. Poi in sala cerchiamo di essere il più maniacali possibile nel ricercare un arrangiamento. Per noi è importante mettersi in discussione, tant’è che ci imparanoiamo 3 volte su 2, e questo ci porta a vedere la canzone da più angolazioni diverse. Una volta che il pezzo inizia ad avere un colore suo, allora lo possiamo definire “accettabile” e possiamo iniziare a lavorarci sopra in studio.
Chi sono stati i vostri mentori musicali nella vostra carriera e in particolare per il vostro lavoro Nabuk?
Per Nabuk sicuramente è stato Nicola.. Nell’arrangiare insieme i pezzi abbiamo iniziato ad imparare quel che serve per lavorare il materiale “grezzo” che emerge in sala prove. Per il resto abbiamo molti riferimenti, che spaziano dai Radiohead ai Queens of the Stone Age. Ci piace molto Rita Pavone, tra l’altro.
Domanda divertente. Tra di voi chi è il musicista più testardo e difficile da gestire? In ogni band ce n’è uno…
Siamo tutti in po’ testardi, soprattutto in fase di composizione. Ci ritroviamo spesso a discutere per un sacco di tempo, senza renderci conto che sosteniamo le stesse cose. Ma a doverne scegliere uno è sicuramente il Ramos (bassista), il nostro tuttologo. Gli vogliamo bene anche per questo.
Nei vostri testi quali sono le tematiche fondamentali? Una curiosità: dato che in questo numero di Tuttomondo parleremo di “memoria” avete mai indagato o pensato di indagare tale tema, sia come memoria collettiva o personale, all’interno delle vostre canzoni?
Per quanto non ci sia una tematica ricorrente, penso che ciò che accompagna i nostri testi sia un alone di disillusione…Cerchiamo di smascherare un po’ la realtà guardandola in “negativo”, di cercare di cogliere i lati più distorti di ciò che ci è intorno e di noi. Anche questo è un percorso. In effetti abbiamo anche affrontato il tema della memoria in questo disco. S.C.A.N. (il penultimo pezzo) parla proprio del passato visto come una catena di cui liberarsi, prima che si trasformi in un fantasma…Quello che cercheremo di fare nel prossimo disco avrà a che fare con la memoria del presente, che, guardandosi intorno, sembriamo aver perso da un po’.
Grazie e in bocca al lupo ai Fiori di Hiroshima!
Virginia Villo Monteverdi
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