Intervista a Simone Giusti – scrittore, regista, sceneggiatore
Buonasera Simone e benvenuto su Tuttomondo. Questo mese ci occuperemo di te e del tuo lavoro in due articoli differenti. Biancamaria ti farà delle domande specifiche sulla tua attività come scrittore, parlando anche del tuo recentissimo Pisa Connection, mentre io mi concentrerò sul tuo percorso da sceneggiatore e regista. Come prima domanda ti volevo chiedere quali sono state le tappe che ti hanno portato al mondo dei cortometraggi, sapendo che tu sei un archeologo specializzato in storia militare
La prima tappa è stata la voglia di uscire dalle regole del Sistema. (Utopia!) È stato seguendo quell’idea che abbandonai il possibile lavoro di ricerca in ambito universitario e mi gettai anima e corpo nel raccontar storie. La seconda tappa è stata quando, seguendo un impulso che avevo dentro fin da bambino (che era cresciuto in me come un alieno ma che non immaginavo di avere) mi lanciai nella stesura di sceneggiature. Da quel primo passo (fatto nel 2008) alla regia a cui mi sono approcciato più di quattro anni dopo, fino a oggi che si parla di cinema in un modo che diventa sempre più professionale (e per professionale intendo “economicamente professionale”), di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta. Chissà cosa porterà l’acqua che ci passerà da ora in poi.
Per intraprendere questa carriera da sceneggiatore quali passi hai fatto? Sei un autodidatta oppure hai frequentato dei corsi specifici?
Per prima cosa mi sono letto una marea di sceneggiature: Guerre Stellari, 1997 Fuga da New York, Blade Runner (solo per dirne alcune). Conoscevo i film a menadito e cavalcando la memoria visiva andavo a vedere direttamente come era stata descritta la scena nello script (per dirlo all’americana). In contemporanea studiai anche diversi manuali su come impostare la sceneggiatura in stile americano (il più usato e, diciamo, universale). La cosa mi veniva facile, era come un linguaggio di programmazione per il regista: era descrivere il film che avresti voluto vedere.
Quindi immagino che dopo questa tua preparazione tu abbia cominciato a pensare alla scrittura di tue sceneggiature…
La mia idea era quella di provare a inserirmi nell’ambiente dei cortometraggi e propormi ai registi come sceneggiatore. (Io sceneggiatore, tu regista). Ma non è andata molto bene. I registi amatoriali sono videomaker, i videomaker hanno già le loro idee di cosa raccontare. Dunque, o trovi collaboratori con cui lavorare in sinergia o ti tieni le tue sceneggiature nel cassetto. Ed è lì che sono rimaste per qualche anno, tre, quattro, o forse un po’ meno.
Quando hai cominciato a scrivere e ideare la saga horror-comedy di Evoc?
Evoc nasce idealmente nell’estate del 2012. Quando terminai la prima scrittura non avevo intenzione di girarlo personalmente (io regista? Ma dai!). Cercai subito Daniele Milano che conoscevo da un po’, una persona a cui la cosa poteva interessare. E infatti gli interessò. Solo che i mesi passavano e la sceneggiatura rimaneva lì, nel solito cassetto delle cose da fare. E allora nel frattempo, inseguendo il sogno dell’emancipazione (non è solo una prerogativa femminile) frequentai un corso di montaggio e successivamente una masterclass di regia a Roma. Il primo con Irene Cacciarini, una videomaker fiorentina, il secondo con Gabriel Bologna, un regista, attore e sceneggiatore americano che insegna a Los Angeles e che ha davvero tantissimo da insegnare. Il periodo post masterclass fu il più prolifico. Girai a raffica corti su corti (le storie non mi mancavano). Ovviamente la qualità tecnica era molto limitata, ma intanto dovevo fare esperienza per il progettone che sarebbe arrivato a primavera, ovvero girare Evoc, e stavolta non come sceneggiatore, ma ricoprendo tutti i ruoli chiave di una produzione, regista compreso. Daniele Milano (mitico capo-attori) trovò i volti giusti per i personaggi del corto e cioè Emiliano Marianelli per Saul, Luca Micheletti (che si fa chiamare Luqa perché è vanitoso) per il Lisca, Isabella Banchini per il ruolo della Lei (che in origine in sceneggiatura era citata come “strafiga” e infatti tutte le ragazze scappavano pensando che fossimo un gruppo di pervertiti. A girare si impara anche la diplomazia) mentre lui si tenne il ruolo del Giova, e in quattro giorni girammo tutte le scene. Visto che il tutto venne ripreso con una handycam “da campeggio”, audio compreso, poi fu vitale l’intervento in mixage audio di Antonio Inserillo. Si propose con grande entusiasmo, e a dirla tutta l’entusiasmo non lo perse mai anche se dopo ore e ore di lavoro ci disse: “Se sapevo che era così, cor cazzo che lo facevo!”.
Il primo capitolo di Evoc, se non sbaglio, ha partecipato a diversi concorsi?
Esatto, lo abbiamo fatto girare un po’. È arrivato in finale all’Horror Project di Roma, dove però ci guardavano un po’di traverso perché avevamo sinceramente una qualità video pessima rispetto agli altri partecipanti e quel mondo è dominio dei videomaker (ne parlo come di una razza aliena) che ha videocamere di alta qualità e sa come usarle al meglio (non come noi/me). Quell’occasione fu comunque importante perché mi fece conoscere una ragazza che faceva la distributrice di cortometraggi. Le piacque così tanto Evoc che dopo qualche mese mi invitò a partecipare a un nuovissimo programma nella tv dove lavorava. Il programma si chiamava Shortbuster e la tv era iLIKE.TV. Furono i telespettatori a votare (come a Miss Italia) ed Evoc piacque, e anche tanto. Vincemmo la puntata delle commedie con oltre il 60% delle preferenze e in finale battemmo tutti con un consenso quasi totale. Galvanizzati da questa vittoria (e dai 400 euro guadagnati col concorso), l’anno successivo ci lanciammo nei seguiti di Evoc e ne girammo due insieme (come la Disney, ma prima di loro!).
Come sono stati impostati questi due tasselli della saga?
Per il secondo e terzo capitolo avevamo una collaborazione in più, Stefano Caruso di Nibiru video come operatore, direttore della fotografia e montatore (in pratica il videomaker che cercavo da anni). In Evoc 2 – La dimora c’è molto di suo, soprattutto nel montaggio, con un ritmo molto frenetico e d’azione (forse non è di nessuno dei due, ma funziona bene lo stesso). Col terzo capitolo, Evoc 3 – La caccia, siamo tornati un po’ sui registri del primo Evoc, con un montaggio più lento e vicino agli stili che adoro, quelli anni Settanta e Ottanta. Mentre i primi due capitoli sono in chiaro su Youtube, Evoc 3 – la caccia per il momento è ancora in promozione a spasso per i locali. È stato proiettato in anteprima alla Festa dell’Unicorno di Vinci ed è stata fatta una serata tutta dedicata a Evoc a Calcinaia (Pisa).
Di quanti altri capitoli sarà composto il progetto Evoc?
Ci saranno altri due capitoli. Il 4 (Il Nemico) che gireremo quest’anno, e il 5 che gireremo nel 2017 (pianifico come la Disney. Attenzione: alla prossima citazione di Disney avrò Han Solo come guest star in un Evoc). Per il quarto capitolo ho deciso di prendermi più tempo rispetto al 2 e al 3 che ho dovuto scrivere in fretta pressatissimo dal cast che voleva subito tornare sul set per nuove riprese. Col 4 tornerò a occuparmi di tutto, riprese con macchina a mano (Giusticam) e montaggio. Non ho ancora (e non l’avrò mai) una professionalità da videomaker navigato, ma la qualità sarà molto superiore rispetto al primo che comunque, a detta del pubblico “era ganzo così”.
Ci vuoi raccontare qualche aneddoto del mediometraggio su commissione intitolato Il cammino di ferro?
Dopo Evoc eccoci alle commissioni. La prima arrivò nel 2014. Dovevo realizzare un cortometraggio che raccontasse storie e fatti della Via Francigena. Tutto per conto di REGES che ha sede qui a Pisa. Da un primo soggetto corto, collaborando con la produzione, siamo arrivati a un mediometraggio di oltre trenta minuti scritto e riscritto nel mese di agosto del 2014. A settembre siamo passati alle riprese, anche quelle di corsa, anzi, più che di corsa, riprese col fiatone. Grazie alla collaborazione con Giacomo Becherini (Direttore della fotografia e secondo operatore), Lorenzo Costagliola (Primo operatore e montatore) e a una produzione che c’ha messo l’anima per rendere possibile le riprese, siamo riusciti nell’impresa di girare la maggior parte delle scene in quattro giorni. Il quinto e il sesto è stata tutta una discesa. Certo, coi secondi contati non si poteva star a guardare il pelo, ma l’esperienza maturata sul set con attori di calibro tipo Fabrizio Brandi e una massa di comparse da filmone hollywoodiano mi ha dato tantissimo (quel che non ti uccide ti rende più forte). E sono diventato più forte davvero. La cosa più bella di quella produzione è stata la possibilità di lavorare con una troupe vera e di collaborare con un Direttore della fotografia che non fosse solo un “fabbricatore di video” ma un esperto (professionalmente e umanamente) nel suo lavoro. Il progetto Il cammino di ferro va avanti, ma sono uscito perché non mi ci sentivo più.
Uno dei nostri temi che esploreremo nel mese di febbraio è “il corto”. Da sceneggiatore e regista di cortometraggi come vivi la scelta artistica della “brevità filmata”?
Allora, per dirtela chiaramente, per me il cortometraggio vero e proprio dovrebbe durare tra i 3 e i 5 minuti. Però attualmente si parla di corti anche su opere che arrivano ai 20 minuti di durata. Paragonando il cinema con la letteratura si potrebbe dire che un corto di 3-5 minuti è come un racconto, mentre uno di 20 minuti è come un romanzo ma raccontato in modo rapido. Ho pensato alla struttura di Evoc (e questo vale per tutti gli episodi) come a quella di un film normale nel quale il primo atto e il terzo atto sono mantenuti intatti nella loro estensione temporale, mentre ad essere compresso è l’atto centrale, quello dello svolgimento dell’azione. Per un corto di 3-5 minuto il discorso cambia: non si racconta più una storia, ma una porzione veramente piccola di quella storia. Si racconta un’idea, un episodio, una scena. Il corto vero e proprio somiglia molto a uno spot televisivo. Hai bisogno di un messaggio, sennò è solo scuola, ed è ancora più importante il finale.
Com’è il tuo rapporto con la provincia toscana e pisana a livello di location? È una scelta obbligata oppure un’opportunità che ami sfruttare?
È una necessita che amo sfruttare. È molto più semplice utilizzare un set esistente e riconoscibile piuttosto che dovertelo ricreare. In più c’è un altro motivo: è inutile andarti a cercare set irreali o fuori contesto se poi gli attori sono in-contesto, e cioè parlano pisano. È molto difficile scovare attori che non abbiano inflessioni dialettali, forzandoli si potrebbe creare un effetto caricatura orribile da sentire. Così mi gioco il pisano sia nei dialoghi sia nelle ambientazioni, e la cosa mi diverte un casino. Inoltre anche nel cinema “vero” il dialetto e la localizzazione della vicenda è molto utilizzata. Altra cosa fondamentale è che mettendo il territorio in primo piano si ha l’appoggio di quel territorio, s’innesca un’utile sinergia con le amministrazioni e i cittadini locali che fanno di tutto per renderti più facile la vita. Un esempio è il mio rapporto bellissimo col Comune di Calcinaia che ci aiuta sempre e col massimo impegno ogni volta che giriamo un capitolo di Evoc. Questo ci permette di lavorare in serenità.
Tenevo molto a quest’ultima domanda che si stacca dalla tua carriera, ma visto che conosco la tua grande passione per il cinema di genere anni ’70 ed ’80, ti volevo chiedere come mai, secondo te, oggi al cinema vige il filone del bio-pic e della storia vera e si è lasciato solo ai pupazzoni della Marvel il lato della fantasia? Perché secondo te, nel mercato cinematografico attuale, è così forte la presunzione di voler essere “veri” quando in realtà il cinema è finzione per sua stessa natura?
I produttori spesso sono persone laureate in economia che vedono il cinema come un’industria e i film come un mercato (ma tanto è così ovunque, anche nell’editoria). Semplicemente in questi ultimi trent’anni il pubblico è cambiato (quello che loro chiamano target) e di conseguenza è variata anche l’offerta scegliendo quella più di massa e dunque più remunerativa. Il pubblico oggi è molto più femminile (un tempo le donne non andavano al cinema e se c’andavano lo facevano assieme ai fidanzati che sceglievano il film da vedere. Oggi è il contrario. E tu sapessi in letteratura…). Tutto questo ha spinto le trame a concentrarsi molto più sul dramma e sull’effetto empatico. E la stessa cosa è successa anche per la tv: oggi c’è un proliferare di giornalismo a effetto che colpisce moltissimo l’animo femminile, molto più del maschile. Di pari passo c’è stato un proliferare di produzioni riguardanti il cosiddetto mondo nerd. Produzioni farcite di effetti speciali, di personaggi fantastici, di intrecci ingarbugliati che hanno lo scopo di colpire al cuore lo spettatore fan, quello che vuol sapere tutto di tutti, che prenota i biglietti per i sequel, che chiede a gran voce i prequel, che si nutre di spin-off e che se gli dai venticinque serie tutte uguali sugli zombie lui se le guarda tutte e venticinque chiedendone ancora, ancora, come uno zombie. Io non amo né il cinema patetico (che per sensazionalismo o drammaticità spinta ai massimi livelli è diventato quasi caricaturale nel voler per forza strappare la lacrima) né le programmazioni con mille ore di stessa roba per raccontarti tutto e di più di personaggi, personaggini e personaggetti. A me piaceva molto di più il film nato per passione, che poi se si considera oggettivamente la cosa è l’unico che ti fa viaggiare la mente e che dura per decenni e anche molto di più (tanto che i film nerd di questi anni non sono altro che sfruttamenti maniacali dei soggetti dell’età dell’oro che amo io).
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