Questo mese TuttoMondo vi accompagna alla scoperta di una delle esposizioni italiane organizzate in occasione del World Press Photo 2014, il più ambito festival internazionale, no-profit, di fotogiornalismo che vanta, ogni anno, numerose mostre organizzate nelle città del mondo più attive nel settore.
Siamo stati a Lucca, nella centralissima Chiesa di San Cristoforo, dove abbiamo avuto la grande possibilità di una visita guidata da Enrico Stefanelli, organizzatore e curatore dell’allestimento lucchese, in collaborazione con Photolux.
Ringraziamo quindi Stefanelli per la grande accoglienza e per la sapiente introduzione alla lettura di un’arte, quella fotografica, che purtroppo in Italia è stata più volte costretta in secondo piano, faticando a emergere come genere artistico pienamente riconosciuto.
Il festival nasce 57 anni fa, ad Amsterdam, con lo scopo di rivendicare la libertà di stampa nei paesi dove essa è minacciata o assente. Oggi sono più di 100 le città di tutto il mondo che collaborano. Tra le italiane ricordiamo Roma, Milano, Lucca e, da quest’anno, anche Bari. Sono tanti e tra i più vari i temi portati alla luce attraverso l’obiettivo fotografico dei numerosi fotoreporter che ogni anno partecipano inviando la loro testimonianza di esperienza vissuta tra l’assordante rumore delle esplosioni e l’acre odore che ogni guerra, inevitabilmente, porta con sé. Quest’anno le foto inviate sono state 98500, ma solo in 143 sono state ammesse alla kermesse fotografica, superando un rigido processo di selezione articolato in due fasi.
Durante la prima, i membri della giuria scorrono le immagini, osservandole per un tempo non superiore ai 4 secondi, senza conoscere la storia che accompagna lo scatto, attuando una prima e importante scrematura, giocata tutta sulla comunicabilità dell’immagine in sè; durante la seconda fase viene data parola agli autori, la giuria può finalmente conoscere la scheda didascalica di ciascuno scatto, valutandone ora non soltanto il potenziale espressivo iconico, ma anche la storia. Un’ultima selezione, questa, che porterà alla fase finale del concorso, con la scelta del primo scatto.
Il vincitore di quest’anno, l’americano John Stanmeyer, ha concorso con una foto che ritrae un gruppo di immigrati sulla spiaggia di Djibouti impegnati nella ricerca del segnale telefonico, in un più che familiare gesto del braccio, sollevato nella speranza di poter rassicurare i cari sul proprio stato di salute dopo il lungo viaggio.
Questa foto, pubblicata in primis da National Geographic, porta alla luce due temi d’attualità molto significativi: il fenomeno dell’immigrazione e quello legato alla comunicazione.
Si potrebbe a lungo parlare della funzione che ricoprono questi due fenomeni nella società di oggi, eppure mai nessuna parola potrà colmare il forte potenziale espressivo dell’immagine davanti ai nostri occhi, le sensazioni che questa suscita in chi l’osserva: è il respiro di un momento, la cristallizzazione di un’immagine che poi prende vita nelle nostre menti, stimolandole verso la ricerca di riflessioni sempre nuove, di verità tra le più antiche.
Pieno riconoscimento, dunque, alla grande arte del fotogiornalismo e ai suoi fieri rappresentanti: i fotoreporter, che fanno del proprio occhio un attento strumento di osservazione e descrizione della realtà, e che, al pari di un pittore, la temperano di luci, colori, ombre, raggiungendo un’altissima qualità espressiva, veicolandola attraverso un sapiente uso della macchina fotografica che da sempre ha dato voce anche a eventi altrimenti inenarrabili, svestendo ogni verità della sua più borghese moderazione.
Sette le categorie in concorso: si passa dalla “General News” al forte impatto della “Spot News”, dalla categoria dedicata a temi di attualità, la “Contemporary Issues”, alla “Daily Life” con scatti che mettono a nudo le più semplici e istintive azioni quotidiane, fino alla ritrattistica (“Observed Portraits”, con ritratti caratterizzati da una forte presenza del fotografo, o altri, del tutto spontanei) e ancora alla sezione “Nature” ed infine quelle dedicate allo sport (“Sports Action” e “Sports Features”).
In tutti i casi la cifra stilistica comune è una: il profondo coinvolgimento dell’artista – alias il fotografo – con il soggetto scelto; è così possibile immedesimarsi nella gioia di una madre che rivede il proprio figlio dopo anni di militanza in paesi di guerra, o nella profonda solitudine di interi quartieri colpiti da un black out dopo una guerriglia. Quanto tempo può durare il passaggio di un’eccentrica nuvola che coprendo il sole crea la magia di un momento? O ancora, quanto può durare il rapido gesto atletico di uno sportivo che dà vita alla sua passione? Un istante. È la fugace opportunità data al fotografo per riuscire a immortalare l’immagine e tutta la sua storia. È l’arte di dare al mondo una vera e propria emozione racchiusa in un insieme di pixel o, se vogliamo essere vintage, in un negativo!
Nel corso della mostra è possibile imbattersi nelle vicende documentate da fotoreporter coraggiosi, coinvolti in situazioni profondamente drammatiche, lontane dall’idea di comfort e sicurezza e tanto più vicine al limite che separa la fredda percezione del pericolo dalla forte, scottante energia della violenza. È il caso di una fotografa americana, Sara Naomi Lewkowicz, che seguendo da vicino le quotidiane vicende di una ragazza madre, si trova improvvisamente coinvolta in un episodio di violenza domestica, laddove il padre dei bambini, ex carcerato, non esita nello sferrare una serie di colpi violenti sul corpo della donna davanti agli occhi increduli della loro piccola figlia, o davanti a quelli dell’osservatore di un’immagine, così forte che soltanto l’obiettivo di Sara Naomi avrebbe potuto immortalare con tanta fredda consapevolezza.
Una riflessione nasce spontanea: Sara Naomi avrebbe dovuto soccorrere quella donna? Per quale motivo non ha smesso i panni della fotografa per vestire quelli da degna soccorritrice? Molto probabilmente nessuno avrebbe poi avuto la possibilità, incontrando immagini tanto forti, di prendere coscienza di una tematica – quella della violenza domestica sulle donne – capace di suscitare grande disgusto e intavolare lunghi dibattiti. Eppure, se Sara fosse intervenuta avrebbe evitato un trauma tanto fisico quanto psicologico a una giovane madre, e ai suoi figli. Esiste allora una linea sottile fra le due situazioni, linea che solo attraverso una profonda riflessione sull’immagine riuscirete a chiarire.
Un altro caso meriterebbe lo spazio di una considerazione: lui è Goran Tomasevic, i suoi scatti sono in bianco e nero ma la sua testimonianza si colora delle tinte più accese. Fotoreporter durante il conflitto israelo palestinese, Tomasevic ci parla della guerra con grande coinvolgimento, perfino fisico. Emblematico il suo scatto nel vivo di un’esplosione: i detriti corrono verso l’obiettivo, liberandosi in un’aria intrisa di polvere e morte.
Un italiano, Alessandro Penso, ci parla invece del fenomeno dell’immigrazione, temperando di una fredda atmosfera verdognola un accampamento stabilito in una palestra. Non vediamo alcun immigrato: soltanto grandi lenzuola bianche, nuove pareti di un’intimità cercata.
Gianluca Panella, altro italiano in concorso, fiorentino, ci mostra invece il buio di alcuni quartieri di Gaza, colpiti da una guerra prima ancora che dal black out. Il fotografo userà qui alcune luci artificiali per delimitare minimamente le strutture architettoniche della porzione fotografata.
Sa rivelarsi di forte impatto anche lo scatto di Brent Stirton, noto per i suoi scatti con soggetti animali, si rivolge stavolta ad una categoria umana: quella degli albini. Cinque ragazzi in camicia rosa disposti in prospettiva piramidale, in primo piano lo sguardo segnato dal forte strabismo di un bambino che di emozioni sa trasmetterne tante.
Ancora Denis Dailleux, che ci parla del fenomeno culturista in Egitto o Rena Effendi, che con i suoi ritratti in presa diretta ci accompagna nella vita di una famiglia rumena impegnata nella preparazione del pranzo domenicale.
Da non dimenticare, poi, è il progetto che Peter Holgersson porta avanti interessandosi alla documentazione della vita dell’atleta di eptathlon Nadja Casadei che viene improvvisamente colpita da un cancro: sono scatti dove la malinconia convive con la forza del guerriero.
Carla Kogelman, invece, entra nella vita di due giovani sorelle austriache che trascorrono il loro tempo giocando all’aperto, nel villaggio di Waldviertel, una zona isolata e profondamente rurale vicino al confine ceco. Traspare la spensieratezza della giovane età ma la felicità non trova mai il massimo della sua espressione.
Questi sono solo alcuni dei tanti motivi che dovrebbero spingere i lettori alla visione di questa mostra, la quale, oltre a includere opere riguardanti temi di grande attualità, si spinge verso una modernizzazione dell’esperienza museale: ospitata in una chiesa ormai sconsacrata (la Chiesa di San Cristoforo in Lucca), il WPP permette a tutti i visitatori di scaricare sul proprio dispositivo mobile l’app gratuita dov’è possibile ascoltare, per ogni opera mostrata, il commento (rigorosamente in inglese) di ogni artista relativo alla propria fotografia esposta; un modo moderno e stimolante o per dirla con un’espressione in linea con i tempi, smart, che facilita una fruizione molto più diretta, stimolando una certa intimità tra l’opera e il suo moderno osservatore.
C’è tempo fino al 14 dicembre.
Per qualsiasi informazione potete rivolgervi direttamente alla mostra
G.F
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