I film protagonisti dell’ultima stagione ai festival internazionali cinematografici hanno tutti come tema centrale la differenza di genere, declinata in ogni sfumatura possibile. I temi legati alla sessualità sono al centro dei dibattiti caldi del nostro tempo e non è un caso che a livello accademico ci sia stata l’esplosione dei Gender studies. Non stiamo parlando di nessuna becera e strumentale “teoria gender”, ma di un filone di studi scientifici che non si focalizzano sulle differenze di genere in senso stretto quanto sulla produzione di un’identità in relazione alla società e alla cultura; senza tralasciare una matrice politica ed emancipativa, i Gender studies comprendono analisi sul femminismo, sull’omosessualità, sulle minoranze etniche e linguistiche, sui problemi legati al razzismo e all’oppressione nel mondo della globalizzazione.
La 72^ Mostra d’arte cinematografica di Venezia ha visto trionfare il film Ti guardo di Lorenzo Vigas. Il regista venezuelano racconta un rapporto tra un uomo di mezza età e un giovane teppista di Caracas, tra amore e odio, in un contesto governato dalla delinquenza e dai rispettivi interessi economici. Sempre a Venezia, Tom Hooper presenta il suo The Danish Girl. Il film narra la storia della prima transessuale operata agli inizi del novecento quando la riassegnazione di genere non era ancora contemplata dalla società e l’omosessualità veniva considerata un disturbo mentale. All’interno delle Giornate degli autori è stato presentato Arianna, l’opera prima del regista viterbese Carlo Lavagna. La pellicola affronta il tema dell’intersessualità, erroneamente noto come ermafroditismo, con estrema naturalezza attraverso gli occhi della giovane protagonista. Se il vincitore degli ultimi Oscar è Il caso Spotlight, presentato a Venezia fuori concorso sullo scandalo giornalistico legato ai preti pedofili nella Boston del 2003, il vincitore della sezione Venezia Classici è Salò o le 120 giornate di Sodoma firmato da Pier Paolo Pasolini. Che potremmo considerare come l’antesignano di tutto questo, grazie all’analisi critica totale che il regista-poeta fa sul genocidio della diversità e sull’annullamento dell’individualità personale.
Gli ultimi due Festival di Cannes non sono stati da meno rispetto ai cugini italiani. Nel 2014 due pellicole si sono imposte all’interno della kermesse per argomento e linguaggio cinematografico adoperato. Pride di Matthew Warchus racconta in parallelo le storie di un gruppo di omosessuali londinesi, alle prese con le prime manifestazioni per l’uguaglianza dei diritti, e dei minatori inglesi in protesta per le condizioni lavorative; tutto questo durante gli anni di ferro, precisamente nel 1984, sotto il governo inglese di Margaret Thatcher. Lo stesso anno a Cannes viene presentato il discusso The Tribe di Myroslav Slaboshpytskiy. Il film si concentra su un gruppo di ragazzi sordomuti in un collegio ed è girato interamente nel linguaggio dei segni. Il regista cerca di amalgamare le vite dei giovani, visti dalla società come degli emarginati, con il difficile contesto della periferia ucraina.
Il 2015 vede un proficuo numero di film al Festival di Cannes che possiamo leggere e analizzare sotto il profilo dei Gender studies. Innanzitutto il trionfatore sulla Croisette francese, Dheepan di Jacques Audiard. Il regista francese mette in scena la fuga di un gruppo di profughi dello Sri Lanka e l’inserimento in una periferia parigina governata dai gangster del ghetto; i punti di vista dei migranti e quello dei malavitosi francesi sono in continua contrapposizione. Carol di Todd Haynes propone la storia d’amore fra due donne nella New York del 1952. L’intento del film è portare sul grande schermo la storia d’amore omosessuale in un’epoca dove la liberazione sessuale e i movimenti femministi radicali non erano ancora decollati; in più, contrappone la vita di una donna dell’alta borghesia con quella di una modesta commessa. In maniera fantastica e senza dubbio originale, il regista greco Yorgos Lanthimos porta a Cannes il suo The Lobster. In un futuro imminente ogni uomo è costretto ad accoppiarsi o rischia l’internamento in apposite strutture. Il fil-rouge del film si gioca tutto sulla volontà d’essere, sulla costruzione della propria identità e sulle costrizioni sociali dell’individuo. L’opera prima della regista turca Deniz Gamze Egüven, Mustang, è un inno al femminismo. In un piccolo villaggio dell’entroterra turco, cinque sorelle sono costrette a vivere la vita scritta dalla famiglia sin dalla nascita. Tra ribellione ed emancipazione, la pellicola compie una profonda riflessione culturale sul luogo come sull’istruzione degli uomini.
Spostiamoci in Germania con gli ultimi due Festival di Berlino. Alla Berlinale del 2015 ha trionfato Taxi Teheran di Jafar Pahai. La pellicola racconta la vita e la società iraniana tramite una telecamera nascosta all’interno di un taxi. Al regista è stata preclusa la possibilità di girare e dirigere film nel suo stesso paese, per questo il lavoro è stato realizzato in totale clandestinità. Pahi è riuscito a dipingere il quadro di un paese attraverso i suoi occhi, come “emarginato in casa sua”, facendo del cinema uno strumento di milizia artistica. Sempre nello stesso anno viene presentato a Berlino il film d’esordio di Laura Bispuri. Vergine giurata è la storia di Hana; la protagonista è costretta ad annullare la propria individualità di donna fingendosi uomo, all’interno di un piccolo villaggio fra le montagne dell’Albania, per godere degli stessi diritti dei maschi. La regista italiana riflette sull’identità di genere rispetto a una società estremamente retrograda e maschilista ma tutt’ora esistente. All’ultima Berlinale, invece, ha trionfato l’italiano Gianfranco Rosi con il suo Fuocoammare. Il documentarista racconta la difficile lotta alla sopravvivenza dei migranti lungo il canale di Sicilia contrapposta alle vite dei pescatori e degli abitanti di Lampedusa.
Ultimo in questa lunga carrellata e assente dai festival cinematografici precedentemente elencati è “il caso” Weekend. Il film del 2011 di Andrew Haigh racconta l’incontro fra due ragazzi da ubriachi in discoteca che finiscono a letto insieme e le successive quarantotto ore di conoscenza. Il film è stato etichettato erroneamente “scabroso e sconsigliato” dalla Conferenza episcopale italiana, solo per la relazione omosessuale fra i due protagonisti, quando invece racconta una società dei costumi libera ed emancipata al di là dell’orientamento sessuale.
Il cinema, sin dalla sua nascita, ha sempre cercato di riflettere le epoche che ha attraversato. Il boom dei film con tema centrale l’identità di genere è sicuramente lo specchio del cambiamento sociale in atto in tutto il mondo e della considerazione di realtà in precedenza occultate. L’obiettivo di questi registi, al centro del cinema artistico e di cultura, è sicuramente quello di andare oltre abbattendo ogni genere di etichetta.
Antonio M. Zenzaro
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