Sul finire del Settecento l’Inghilterra occupò una posizione dominante in campo economico-politico e nei diversi ambiti del sapere e delle arti, sopravanzando la Francia che, sino ad allora, aveva rappresentato il principale riferimento culturale europeo. Si avvicendarono, talvolta sovrapponendosi, due differenti sensibilità nei confronti della natura. La moda del giardino geometrico-formale, detto “alla francese”, iniziò a essere considerata una forzatura: violenza gratuita che costringeva la natura entro astratte forme geometriche. In alternativa, il gusto anglosassone per una natura disadorna, apparentemente libera da artifici, promosse la nuova tendenza del giardino paesaggistico-informale, detto “all’inglese”.
I grandi impianti in stile Barocco e Rococò di ville, palazzi e castelli, in Francia e Olanda erano stati realizzati applicando i canoni del giardino rinascimentale, detto “all’italiana”. Il Giardino di Boboli a Firenze e la Villa d’Este a Tivoli avevano costituito un’inesauribile fonte di ispirazione per gli artisti del Seicento e del Settecento. Questi allestimenti sono caratterizzati da parterre geometrici disposti simmetricamente e bordati da siepi, scale e rampe che collegano le terrazze ai diversi livelli, arricchiti da statue con soggetti mitologici e da invenzioni per stupire i visitatori come grotte, labirinti, fontane e cascate.
Nel giardino “all’inglese”, invece, il processo creativo mirava ad accentuare le originarie caratteristiche del sito, limitando le opere a modeste trasposizioni, appena percettibili, puntando a creare un rapporto armonico e virtuoso tra elementi originali ed elementi aggiunti. I suoi principi teorici erano stati fissati dallo scrittore e drammaturgo Joseph Addison (1672-1719), padre del giornalismo inglese, e dal poeta Alexander Pope (1688-1744). Secondo questi intellettuali, la bellezza non può che essere il frutto di un intervento semplice e sapiente che scaturisce dell’acquisita consapevolezza che l’essere umano e le sue opere sono parte integrante del paesaggio.
La progettazione iniziò a essere utilizzata come procedimento critico. La sentita necessità di distinguere tra arte (cultura) e natura trovò nell’utilizzo della prospettiva un metodo razionale di efficace controllo tecnico-compositivo e uno strumento operativo che incarnava l’acquisita consapevolezza degli artisti-giardinieri sul significato del loro operare. Il paesaggio fu inteso come un luogo privilegiato entro il quale inserire opere simboliche, artifici utili a raggiungere un effetto di reciproca valorizzazione. Il visitatore, rapito da una calcolata sequenza di scene, veniva immerso in un ambiente stimolante, da esplorare e scoprire, capace di richiamare alle menti illuminate il valore e il senso del nostro rapporto con la natura.
Luogo ideale, rifugio bucolico fuori dal tempo, il giardino paesaggistico e il suo immaginario rappresentarono la scena mobile e ambigua di un teatro interiore. Potette realizzarsi, quindi, la visione di un luogo intimo in cui abbandonarsi alle proprie inclinazioni riprendendo il filo interrotto di un dialogo con la natura, come auspicato dal filosofo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Il godimento della bellezza naturale, e naturalizzata, si configurò come un’esperienza edificante ed entrò a far parte dei diritti dell’individuo.
Il pittore e architetto William Kent (1685-1748) fu il principale esponente di questa tendenza. Trattò il paesaggio-giardino come una serie di quadri in successione e utilizzò la passeggiata come espediente per mutare le scene, proponendone variazioni in piano e in altezza.
La pittura fu, per l’artista inglese, lo strumento essenziale per progettare. Alla letteratura, al testo poetico e teatrale, che da sempre aveva ispirato le opere di pittori e scultori, continuava a essere assegnato il ruolo evocativo di storie, leggende e miti che venivano richiamati dai nomi degli angoli del giardino, o dalle epigrafi che lo punteggiano scandendo le tappe del percorso. Il visitatore poteva sentirsi parte del paesaggio, in quanto essere naturale e, al tempo stesso, libero artefice della propria esperienza estetica.
Il tempo soggettivo, scandito e dettato dalla fruizione/percezione, dall’immersione nell’ambiente, si intrecciava con quello della natura segnato dal succedersi dei cicli, dalle variazioni di colori, forme, suoni, profumi, nell’alternanza di luce e di ombra, di caldo e freddo, di prossimità e distanza.
Kent, nei suoi disegni, realizzò una progressione di edifici riconosciuti come esemplari delle radici culturali inglesi, secondo il sentire dell’epoca: Roma antica fu simboleggiata dai tempietti classici, il Medioevo fu evocato dagli edifici gotici. Le figure umane, infine, partecipavano alla scena rappresentando l’Inghilterra contemporanea.
L’indirizzo corrente portò all’ideazione di una vasta gamma di monumenti in miniatura: un antico tholos, una pagoda cinese o un torrione gotico poterono entrare a far parte dell’eclettico repertorio simbolico-figurativo a disposizione degli architetti-giardinieri. Questi oggetti emblematici, accomunati sapientemente per il piacere dello spirito e l’abbellimento della passeggiata, contribuivano a rendere il giardino un’enciclopedia: percorrendolo si sfogliavano i diversi capitoli di un “libro” del mondo. Nella trasposizione francese, questa tendenza assunse gli aspetti più eclatanti, con accessi che non mancarono di suscitare critiche come quelle mosse dal poeta Jacques Delille (1738-1813):
«Bandite dai giardini tutto quel confuso ammasso di edifici alla moda (…) caos architettonico senza capo né coda la cui profusione sterilmente feconda rinchiude in un giardino le quattro parti del mondo».
Il permeare di una poetica in un contesto storico culturale, differente da quello in cui ha avuto origine, può rappresentare la risposta a un’esigenza di pedissequa omologazione, può arricchirsi di nuovi significati, oppure prestarsi a strumentalizzazioni. In Germania, ad esempio, il giardino paesaggistico prese piede connotandosi di significati politici: benché la maggior parte dei Principi committenti non ne fosse realmente consapevole, il giardino informale rappresentava, infatti, un simbolo di libertà da contrapporre al modello geometrico, espressione di un indesiderato sistema di governo assolutista.
In Italia, la nuova tendenza giunse, invece, sull’onda di un rinnovato interesse per la botanica che, confrontandosi con la tradizione del giardino rinascimentale, alimentò il dibattito nella seconda metà del Settecento. L’ambiente culturale lombardo fu il primo contesto entro il quale la nuove teorie poterono essere accolte e discusse. La politica di decentramento, messa in atto dalla corte austriaca, coincise con la moda del giardino “all’inglese” divulgata dagli scritti di vari letterati tra i quali Pietro Verri (1728-1797), considerato il padre della scuola illuminista milanese. Verri fu cofondatore – assieme al fratello Alessandro, Cesare Beccaria e altri amici dell’Accademia dei Pugni – del periodico letterario Il Caffè (1764-66), sulle cui pagine possiamo leggere una sua celebre esaltazione-esortazione alle delizie della villa.
L’amministrazione asburgica, in linea con una politica di interventi urbanistici operati nelle città, deputò alla costruzione della Villa di Monza la rappresentazione emblematica del proprio potere.
La costruzione della villa, affidata all’architetto Giuseppe Piermarini, fu voluta dall’imperatrice d’Austria Maria Teresa quale residenza estiva per la corte arciducale del figlio Ferdinando d’Asburgo-Este, Governatore Generale della Lombardia austriaca dal 1771. Sorse così, in soli tre anni, a partire dal 1777, il primo esempio di moderno giardino “all’italiana”, felice compromesso tra il modello paesaggistico “all’inglese” e quello geometrico “alla francese”. Probabilmente suggestionati dalla fama della residenza di Dessau-Wörlitz, i committenti indussero l’architetto a formulare un’inedita ibridazione che ebbe una notevole influenza.
Nelle città italiane si realizzarono impianti rigorosamente “all’inglese”, spesso deplorati, per la mancanza adeguata di spazio, dagli stessi sostenitori di questo modello. La fusione dei due stili fu adottata, invece, nelle residenze in villa. Le ragioni di questa scelta sono da individuare, soprattutto, nella volontà di mantenere i giardini preesistenti, pur realizzando ampliamenti e risistemazioni in linea con il nuovo gusto. La tradizione classica, così legata alla razionalità italiana e francese, non poteva essere soppiantata di punto in bianco. Questa necessità di sintesi trovò, inoltre, una giustificazione proprio nel pensiero illuminista. Nell’equilibrato rapporto tra paesaggio e geometria viene espresso, infatti, quel dialogo tra natura libera e natura guidata dall’arte sentito come emblematico del rapporto tra cultura e natura, ragione e sentimento, calibrato gioco tra affinità e contrasti estetici, rifugio e dimenticanza felice delle inquietudini e delle pressioni del mondo.
L’idea, tipicamente settecentesca, di considerare la bellezza utile e l’utilità una forma di bellezza, più tardi sfocerà con implicazioni sociali nella realizzazione dei primi parchi pubblici. L’estetica dell’utile indurrà Ippolito Pindemonte (1753-1828) a considerare come autentico giardino “all’inglese” l’insieme di giardino, parco e podere, estendendo l’attenzione degli artisti al distretto e al territorio.
Pindemonte osservava, nella sua Dissertazione su i giardini inglesi e sul merito in ciò dell’Italia (1817), che la scena rappresentata diminuisce il piacere provato da colui che la contempla se è un prodotto che imita la natura artificiosamente. Secondo il letterato occorreva, piuttosto, dare alla ragione il piacere di ideare giardini geometrici, e cedere alla natura quello di creare paesaggi. Pose, così, le premesse teoriche per la fusione e l’accostamento tra il nuovo modello “all’italiana” e il parco “all’inglese”.
Con lo sguardo del contemporaneo, nel Decalogo per un ritorno al giardino (2013) Marco Martella afferma: «il giardino è luogo di resistenza: perché sfugge alle regole del mercato, perché nessuno ha ancora trovato il modo per trasformarlo in prodotto commerciale, consumabile, riproducibile, e perché risveglia in noi il sentimento perduto, poetico del sacro».
Di questo sentimento parleremo a proposito del Giardino Scotto di Pisa, percorrendo le ragioni delle vicende che lo hanno accompagnato, nelle diverse fasi del suo sviluppo, dalla fine del Settecento sino ad oggi.
A rivederci al nuovo anno.
Enzo Lamassa
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