Pubblichiamo il prezioso ricordo di un amico di Giulio Regeni
Non ho letto molto su quello che gli è accaduto, e sulle indagini. Per motivi comprensibili. Perché, ogni volta, mi fa troppo male. Alcuni titoli, però, me li ricordo bene. So che si parla dei suoi studi di dottorato, della collaborazione che la sua università fornisce alle indagini, della pericolosità di un soggetto di ricerca come quello che stava portando avanti, e che forse gli era stato suggerito incautamente.
Si finisce per associare un’ombra a quel luogo, come se fosse morto in Inghilterra, per mano di qualche studioso folle. Non ne ho idea. Non seguo le indagini. Non ancora. Perché, ogni volta, mi fa troppo male. Ma una cosa è bene che la si sappia: Cambridge ci sembrava molto bella. E noi che ci studiavamo ci stavamo bene. La stessa diffrazione tra ricordo e notizie vale per il suo viso. L’ho rivisto, come tutti noi, nella mezza dozzina di fotografie che i media sono riusciti a collezionare. E ci siamo fatti l’idea di un ragazzo prevalentemente con la barba, fotografato quasi sempre controluce.
Quell’estate non aveva barba, ed il suo viso era luminoso, pulito, i suoi capelli erano di un castano che aveva riflessi molto chiari – insomma, era un po’ diverso da come l’ho dovuto guardare ritratto sui giornali. Forse sono scherzi della memoria, forse è stato il rifiuto di vedere la sua immagine associata al racconto della sua sorte, ma ho fatto fatica a riconoscerlo. Per me esiste un Giulio prima di, un Giulio che a Cambridge era sereno, o almeno a me sembrava esserlo, come lo eravamo tutti in quei mesi, e un Giulio dopo di.
Cambridge ha il potere d’isolarti dal resto del mondo, mentre quel mondo si offre docile a te, giovane studioso, come un oggetto d’indagine, come un esperimento, come un testo antico da interpretare, come un teorema da dimostrare: la sua esistenza è prima di tutto nella tua mente, concentrata e stimolata dall’atmosfera di frenetico – ma al tempo stesso educatissimo – scambio intellettuale, ed una barriera morbida ti protegge dalla materialità fisica, dal contatto con quello che c’è fuori.
I prati, i vecchi college, gli edifici del dopoguerra, con la loro ambizione di democratizzazione del sapere, i cottage, le vie medievali, i grandi edifici delle facoltà, ed il fiume Cam, coi suoi ponti, le sue strane gondole, i cigni ed i corvi, ci separavano da ogni altra cosa, creando quella che ogni studente impara a chiamare ‘la bolla’, the bubble, la Cambridge che la comunità studentesca ed accademica finisce col confondere col mondo intero, finché gli studi non terminano.
Gli studi, per noi, non erano ancora terminati, e cercavamo ogni modo possibile per approfittare di quel contatto dolce, e al tempo stesso fittissimo, tra giovani di quasi ogni nazione, impegnati nello studio di quasi ogni cosa, avidi di scambi, di conversazioni, di stimoli, di idee brillanti ed inaspettate, del piacere di sorprendere quanto di quello di essere sorpresi, del piacere di provocare quanto di quello di essere provocati.
Fu per questo che creammo un cineclub.
Non aveva ambizioni, ed ebbe vita breve. Non eravamo neppure molti, anche se formavamo, credo, un bel gruppo, per varietà di provenienza e di interessi.
I film che guardavamo erano ‘impegnati’, si direbbe, ma non c’era alcuna eccessiva pretesa di ricercatezza, e le discussioni erano prive di ogni esibizionismo. Come quasi dappertutto, in città e nei college, qualche snack e qualche birra ci facevano sentire quello che eravamo: persone alle quali la vita aveva concesso il piacere di studiare, e che se lo godevano, in semplicità, fino in fondo a serate, e notti, che avevano il sapore di tante idee che aspettano una vita e un mondo più concreti e ‘pesanti’ per misurarsi, finalmente, con la realtà.
Lo conobbi ad una delle prime serate che organizzammo.
L’etichetta voleva che ci si parlasse in inglese, in modo da essere compresi da tutti.
Nella sala messa a disposizione dal college di uno dei partecipanti, ci riunivamo con qualche cosa per sostituire la cena e, guardato il film, discutevamo di quello. Non essendo però dei cinefili professionisti, la discussione scivolava presto su altri argomenti, i soliti in una città universitaria: le prossime scadenze, la prospettiva di un lavoro, i progetti di ricerca, la vita sociale, le feste. Erano piacevoli serate di una tiepida primavera inglese, cui seguì una tiepida estate inglese, quasi senza pioggia.
Man mano che i ragazzi si accingevano a ritornare al proprio college, poteva capitare che, nella sala di proiezione, si finisse per restare tra italiani. Gli italiani a Cambridge sono pochi, pochi se paragonati agli studenti di altri paesi europei; non è facile che si incontrino quanto lo è per dei tedeschi, degli olandesi, dei francesi. La voglia di scambiare quattro chiacchiere con altri italiani aveva tempo per maturare, e dall’inglese si passava volentieri alla lingua madre, aiutando una convivialità più rilassata mentre ci si addentrava nella notte.
Ed era allora che Giulio mi si manifestò per quello che, per me, era.
Amava parlare della cosa pubblica, amava analizzare i fenomeni sociali, amava la politica. Parlava con una voce chiara, quasi senza inflessioni dialettali, e la sua conversazione era marcata da una meticolosità pari soltanto all’educazione ed alla pacatezza con le quali si esprimeva e con le quali lasciava esprimere gli altri. Ed era, è bene che lo si sappia, una persona allegra, e serena.
E’ difficile pensarci adesso, ma aveva la capacità di intessere profondi scambi d’idee, scambi nei quali potevano affiorare punti di vista anche notevolmente divergenti, senza perdere quell’allegria e quella fiduciosa serenità che lo rendevano irresistibilmente interessante, e terribilmente convincente. La differenza degli approcci accademici a partire dai quali analizzavamo le questioni dibattute non lo metteva in difficoltà, anzi, esaltava la prontezza della sua intuizione, del suo ‘senso’ per le soluzioni ragionevoli, dietro le quali stava una quantità di riflessioni, lo si capiva, molto elevata e di grande raffinatezza.
Era fiducioso nei propri argomenti, senza mai essere cattedratico; era brillante, senza mai fare sfoggio di barocchismi o di pirotecnia verbale: aveva già, così giovane!, trovato il modo di essere semplicemente se stesso e di essere, per questo, soddisfatto di sé, senza ansie, senza protagonismo, senza incertezze.
Ho cercato di capire il perché.
Credo che la risposta si condensi in due parole: valori e dialogo.
Giulio, la sua intera vita e la sua intera produzione intellettuale lo testimoniano, aveva una forte base valoriale: credeva nelle proprie idee, rifiutava le mode del momento, sapeva essere critico del presente, nostalgico di quello che di buono riteneva ci fosse nel passato, e ansioso di un futuro che riusciva ad immaginare migliore, pur essendo terribilmente cosciente del fatto che il mondo, fuori dalla ‘bolla’, era un posto messo piuttosto male.
Ma mi fermo qui: quello che Giulio ha scritto è molto più eloquente di quanto io possa dire a proposito dei suoi principi. E’ un uomo che ha vissuto per dei principi, non è soltanto morto per essi: questo lo voglio ricordare, per quanto questo possa apparire evidente.
Vorrei invece ritornare con riconoscenza sulla sua straordinaria fiducia nel dialogo.
Giulio, lo si comprendeva molto facilmente, era molto più maturo della sua età, e persino più maturo di quanto ci si aspetterebbe in base all’eccellente status che i suoi successi accademici gli conferivano. Era abilissimo nel difendere il suo punto di vista, era difficilmente contrastabile nell’argomentazione, ma questo nasceva dalla forma di amore più puro che si possa portare alla politica: dalla fiducia nel confronto. Poteva discutere a lungo, e con persone che la pensavano molto diversamente da lui. Il mondo intellettuale è pieno di cinici, di opportunisti, di anime morte, di servi o aspiranti tali. Lo sapeva bene, lo vedeva come lo vedevamo tutti. Quello che non lo ha mai abbandonato è stata la certezza che lui non sarebbe mai diventato come queste figure.
Per un motivo.
Perché era sempre pronto ad imparare dagli altri. Perché, in altre parole, era sempre pronto a rimettere in discussione le sue convinzioni, era pronto a cambiare idea, era disponibile a dare ragione, senza alcuna resistenza.
Perché amava senza riserve la verità, la ricerca della radice dei fenomeni sociali e politici, e comprendeva che l’enorme complessità di essi poteva essere ridotta soltanto essendo pronti a correggersi continuamente.
La verità era l’unica cosa che, in fondo, gli interessava, e, come ogni intellettuale degno di questo nome, era disposto a rinunciare a tutto, ma non alla ricerca di essa.
Chi mi legge non creda che questo amore incondizionato per la verità, molto più forte anche delle proprie opinioni più radicate, sia frequente tra gli studiosi. E’ una delle virtù più rare che esistano in quell’ambiente, e spiega il suo coraggio, dandogli una connotazione di nobiltà e, come purtroppo abbiamo scoperto, di eroismo.
E’ raro, e terribile, morire come è morto Giulio, tra i giovani intellettuali d’occidente, ma – make no mistake – è ancora più infrequente essere capaci di vivere, pensare e studiare come lui. Misurare la distanza che passa tra la media del “mercato” dell’intelligenza, spesso messa al servizio del migliore offerente, e la sua innocente, e disarmante, e potentissima fedeltà al puro e semplice sforzo di onesta e imparziale comprensione della realtà è il privilegio, che si fa esigentissimo appello, che chi l’ha conosciuto conserverà sempre con gelosia.
Daniele Mercadante
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Bellissimo articolo, spiega perché il sorriso e lo sguardo di Giulio ci comunichino un immediato senso di quello che lui é stato. Giulio é diventato il figlio che ha fatto sanguinare il cuore di tante madri e tanti padri, lo sentiamo “nostro” anche se non abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo.RIP ♡♡♡
Grazie Emma, per questo tuo pensiero