A Pisa, la Domus Mazziniana conserva una delle due chitarre appartenute a Giuseppe Mazzini, quella su cui aveva imparato a suonare. L’altra che usava nell’esilio londinese si trova a Genova. Il filosofo del Risorgimento pensava che il mezzo migliore di propaganda repubblicana fosse la musica. Nel 1833 scrisse una Filosofia della musica, dedicandola a un Ignoto numini, una divinità sconosciuta. In quell’anno Giuseppe Verdi era ancora un acerbo direttore della banda di Busseto e il musicista di cui scriveva Mazzini era Gioachino Rossini. Il Melodramma era il medium che all’epoca parlava a tutte le genti della Penisola, divisa in molti stati diversi. Specialmente Vaticano e Regno Borbonico esercitavano un’attenta censura sugli spettacoli che mettevano in scena regicidi, cospirazioni e popoli in lotta con invasori e dominatori. Le teste calde andavano isolate.
La vita di Giuseppe Fortunino Francesco Verdi attraversa quest’epoca e quasi l’intero secolo XIX, dal 10 ottobre 1813, quando nacque nella campagne di Le Roncole di Busseto in provincia di Parma, al 27 gennaio 1901, quando morì nella grande città di Milano. Alla sua nascita l’Italia era più un’espressione geografica che una terra con una cultura propria. Alla data della sua morte la nazione c’era anche se camminava ancora incerta sulle giovani gambe di un Regno appena trentenne, di cui Giuseppe Verdi fu parlamentare, prima Deputato eletto nel 1861 e poi Senatore nominato nel 1874.
Nessuno mette in dubbio la relazione tra l’Opera di Verdi e il Risorgimento italiano, dando ragione a Mazzini che aveva visto nella musica teatrale un motore di identificazione sociale e nazionale. Ogni città aveva il suo teatro e l’Opera giocò un ruolo mediatico cruciale nel definire l’Italia come nazione dotata di una sua storia culturale. I grandi teatri di Milano, Torino, Napoli e quelli di una infinità di piccoli centri si connettevano e producevano il senso di appartenenza a un’idea comune. Le compagnie teatrali ammettevano il popolo nei loggioni a prezzi molto bassi, raggiungendo così un ascolto molto più ampio delle élite sedute nei palchi e in platea. I giornali che narravano i successi delle opere facevano il resto. La musica del melodramma e il suo contorno mediatico erano un ingrediente essenziale della vita sociale. Fu inevitabile che molti cantassero il liberatorio Va pensiero del Nabucco e usassero il Viva V.E.R.D.I. come slogan in favore dell’unità d’Italia, prima a Napoli poi nel resto del paese.
Verdi scelse spesso argomenti storici, che immancabilmente davano il via a letture patriottiche, spesso incendiate dall’intervento dei censori sulla trama e i personaggi, perfino per dislocare il luogo dei fatti messi in scena. Ma Verdi era soprattutto uomo di teatro, attento ai particolari degli allestimenti, all’aderenza dei libretti alla musica, alla coerenza delle voci con le parti melodrammatiche, al funzionamento della macchina dello spettacolo. La sua era una studiata messa in scena di vicende e trame in cui la rappresentazione dei sentimenti umani lo interessava più della collocazione storica e geografica dei fatti. La lotta contro librettisti e censori fu eroica, fondata su un carattere deciso e consapevole del proprio talento.
Un esempio per tutti. Prima di essere messa in scena a Roma nel 1959 l’opera Un ballo in maschera fu rimaneggiata molte volte, come personaggi, epoca e luogo. Molti anni prima, nel 1933, Eugène Scribe aveva tratto un libretto per Daniel Auber dal dramma francese Gustave III, ou Le Bal masqué. L’argomento fu proposto a Verdi dall’amico Antonio Somma e i due contattarono il San Carlo di Napoli, ma ovviamente il tema di un Re (di Svezia e quindi europeo) ucciso dal marito dell’amante non poteva piacere ai Borboni. Lo spostamento in Pomerania e l’anticipo di un secolo della vicenda non furono sufficienti, anche perché il 14 gennaio 1857 a Parigi Felice Orsini lanciò alcune bombe contro la carrozza di Napoleone III che si recava all’Opera. Le modifiche fatte dal San Carlo a insaputa degli autori furono rigettate e tra Verdi e il teatro volarono denunce e querele. Il Maestro, pur di mettere in scena l’opera a Roma, cioè non lontano dalla Napoli borbonica, accettò di spostare la vicenda a Boston. In America, paese ancora selvaggio, un Governatore (non un Re) poteva immoralmente trescare con la moglie del segretario e anche subire un attentato, senza indispettire la censura. Da allora, il Ballo è ancora una delle opere verdiane più rappresentate.
Nel 1840 Giuseppe Verdi era rimasto vedovo della prima moglie, Margherita, figlia del suo mecenate bussetano Antonio Barezzi. Il Maestro avviò quindi una lunga relazione con la soprano Giuseppina Strepponi, amica, consigliera, amministratrice del patrimonio, che finalmente sposò nel 1959. Ebbe modo anche di farla ingelosire per le molte chiacchiere sorte intorno alla sua passione musicale per l’avvenente soprano Teresa Stolz, amante del direttore Angelo Mariani. La Stolz fu la protagonista della prima europea dell’Aida alla Scala di Milano nel 1872. Per seguirne le prove Verdi disertò la prima mondiale del dicembre 1971 al Cairo per celebrare l’apertura del Canale di Suez. E pensare che il committente di Aida, il primo khedivê d’Egitto Ismail Pascià, gli aveva attribuito l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine ottomano. I pettegolezzi non sono mai stati confermati e Giuseppe e Giuseppina, morta nel 1897, furono separati dalla morte per soli pochi anni.
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