Duello nel pacifico (Hell In The Pacific, John Boorman, 1969)
Two worlds collide
Rival nations
It’s a primitive clash
Venting years of frustrations
Così cantavano i Survivor nel main-theme del quarto sequel della saga di Rocky Balboa: nel caso del film di Sylvester Stallone ad essere in conflitto erano il mondo sovietico e quello statunitense; in Duello nel Pacifico – quindici anni prima del film pugilistico – erano quello statunitense e quello giapponese, in pieno svolgimento della Seconda Guerra Mondiale. Ma procediamo con ordine.
John Boorman reduce dall’exploit del suo debutto statunitense Senza un attimo di tregua (Point Blank), accetta di girare un film ambientato nelle isole dell’Oceano Pacifico su soggetto di Eric Bercovici, dopo che il trattamento di partenza ad opera di Boorman e Jacobs fu scartato dai produttori. Il progetto è allettante e Boorman è conquistato da questo soggetto bellico sui generis tanto da ritenere questa avventura come un banco di prova su cui testare le sue capacità di sperimentatore entro i confini hollywoodiani, infatti la sua idea è quella di girare un film muto, cosa che in parte realizzerà. Per farlo, John Boorman si affida nuovamente al talento di Lee Marvin (già protagonista Senza un attimo di tregua) eccitato dall’idea di lavorare con Toshirō Mifune, attore feticcio del regista Akira Kurosawa.
Marvin e Mifune sono due soldati, il primo americano e il secondo nipponico, che si ritrovano su un isolotto disabitato dell’Oceano Pacifico. Marvin è un pilota ammarato mentre Mifune è un ufficiale giapponese dato per disperso. Nella prima parte del film i due avversari si combattono ferocemente: qualche volta la spunta il giapponese, in altre circostanze è l’americano che ha il sopravvento. Una scena importante per capire quanto la natura sia importante per Boorman è la battaglia per l’acqua. L’acqua in un primo momento divide, fa combattere, quasi uccidere, i due sventurati soldati che continueranno il loro scontro per una fetta importante della pellicola. In seguito, quando i due cercano di placare i loro istinti bellici, l’acqua diventa il collante che li porta lontani dall’isola con una zattera di fortuna. Il riavvicinarsi ad una forma di civiltà – seppur abbandonata e bombardata, com’è la nuova isola a cui approdano – fa si che i due tornino a far parte di fazioni opposte, ancora in guerra tra loro, in balia di un destino sconosciuto (anche se il finale non riconosciuto dal regista e voluto dai produttori riporta tutto su di un piano puramente bellico).
Come saggiamente scritto da Adriano Piccardi, in uno dei rari volumi dedicati in Italia al regista inglese, il tema centrale del film è «il rapporto tra l’individuo e le condizioni della propria socialità: fino a che punto una persona può conservare le caratteristiche di una certa società, di una certa cultura, senza la presenza concreta degli oggetti che ne sono portavoce?». Infatti gli oggetti della vita quotidiana che i due sopravvissuti ritrovano nella nuova isola (il sakè, la rivista Life, le sigarette, gli arnesi per radersi) sono veicolo per la nuova trasformazione sociale: da selvaggi nemici a selvaggi amici, da civili amici a civili nemici. Boorman mette in scena anche l’illusione di un futuro che non esiste: i soldati sono abbandonati a loro stessi, come se le atrocità del conflitto avessero spedito i due uomini in un universo parallelo. Lo spirito antibellico di Boorman – che è ben palesato nella bella intervista che Paolo Zelati riporta nel suo American Nightmares – riesce a trasformare un film di guerra in un film-studio dal tono antropologico e storico dalla forte carica emotiva e dalla messa in scena incontaminata.
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