Una chiacchierata con Guido Tonelli sul suo nuovo libro Cercare mondi
PISA – Grandi anni questi ultimi per la fisica. Mi rendo conto della mia ignoranza scientifica, per questo da un po’ di tempo tengo d’occhio il fisico Guido Tonelli, professore all’Università di Pisa, uno dei protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al Cern di Ginevra nel 2012 (la prima evidenza fu nel novembre 2011), che ha portato il Nobel per la fisica a Englert e Higgs nel 2013. Tonelli è tra i più importanti fisici al mondo; ha vinto numerosi e significativi premi e per questi meriti scientifici il Senato Accademico pisano, lo scorso 7 aprile, l’ha insignito dell’Ordine del Cherubino. A lui devo le mie conoscenze sull’universo.
Appena finito di leggere il suo secondo libro Cercare mondi, decido di scrivergli una mail per dirgli che mi è piaciuto molto e che mi piacerebbe parlarne con lui. Mi risponde al volo e mi dice di chiamarlo. Gli telefono a Ginevra, dove lavora, ma il mio collegamento Skype difetta, lo sento, vedo il suo bel sorriso, ma lui non mi sente. Allora ci diamo un secondo appuntamento telefonico. Guido Tonelli è sempre al pezzo, preso tra il Cern e l’università.
È oggi alla ribalta, diciamo: i suoi incontri pubblici in varie città sono sempre molto seguiti, lo possiamo ascoltare alla radio o vedere in tv. Mercoledì 14 giugno sarà in Piazza dei Cavalieri a Pisa per chiudere il primo ciclo di conferenze Fra terra e cielo promosse dalla Scuola Normale Superiore. Insieme a Tonelli ci saranno il critico letterario Piero Boitani, l’attrice Maria Paiato con alcune letture dall’Ariosto e il contributo di Lina Bolzoni. La lunga intervista che segue è frutto di questa lunga chiacchierata.
Perché hai sentito il bisogno di scrivere due libri in due anni: l’anno scorso La nascita imperfetta delle cose, che ha vinto il premio Galileo 2017 come miglior libro di divulgazione scientifica, e quest’anno Cercare mondi.
«La nascita imperfetta delle cose è il racconto della scoperta del bosone di Higgs. Una storia cui ho partecipato direttamente. Nelle iniziative di presentazione del primo libro ho notato che il pubblico poneva domande molto interessanti: come è nato il mondo materiale che ci circonda e che ruolo vi gioca il bosone di Higgs, che cosa sono le onde gravitazionali, cosa sappiamo della fine che farà il nostro universo. In queste occasioni ho scoperto che, anche fra i non-specialisti, c’è una grande curiosità intorno a questioni di fondo. Sono rimasto meravigliato dalla profondità e dalla passione con cui persone comuni si interrogano su questi quesiti. Evidentemente sono questioni che non interessano solo noi scienziati ma si annidano nel più profondo dell’animo di tutti. Il secondo libro nasce un po’ come il tentativo di rispondere in maniera semplice e organica a queste domande. Chi leggerà Cercare mondi vi troverà molte delle risposte che stava cercando e il suo sguardo sul mondo non sarà più lo stesso».
Nel libro dici che le nostre vite si svolgono su un “sottile guscio sferico”, un angolino tranquillo di dimensioni ridicole rispetto all’universo gigantesco che ci circonda. Cosa comporta questa consapevolezza dei nostri limiti? Da quale pregiudizio siamo più gravati? Siamo, come sempre, in difficoltà, come eravamo in difficoltà a pensare che la terra fosse rotonda, che la gente di Sidney potesse vivere a testa in giù, insomma a renderci conto del carattere anti-intuitivo della realtà?
«Sì, perché noi umani, per millenni, ci siamo posti al centro del mondo, quindi abbiamo implicitamente pensato che come vediamo noi le cose così esse sono nella realtà. Non ci siamo resi conto che il fatto di essere corpi materiali di una ottantina di chili, che si muovono a velocità miserabili e vivono in un angolino veramente minuscolo dell’universo ci ha condizionato a tal punto da farci costruire strumenti concettuali estremamente limitati e per molti versi assolutamente fallaci; quegli stessi strumenti che ci permettono di vivere sulla terra, e che abbiamo sviluppato in millenni di evoluzione, funzionano benissimo se non ci si allontana da questo sottile guscio sferico. Se vuoi esplorare le cose nell’infinitamente piccolo o capire le strutture che popolano l’infinitamente grande, cioè le particelle elementari o le grandi galassie, quel bagaglio di strumenti che ti serve per andare al mercato, per fare baldoria con gli amici o litigare col datore di lavoro ti è d’impiccio; perché la realtà, la materia, su quelle scale, che sono di gran lunga più importanti delle nostre, si comporta in maniera completamente diversa».
Definisci lo spazio-tempo “una specie di rete invisibile dentro la quale ci muoviamo spostandoci da un nodo all’altro”, quali sono i nodi di questa rete? Perché l’immagine di un orologio fluido e gocciolante di Salvador Dalì presente nel tuo libro ci offre un’idea della concezione dello spazio e del tempo che è stata acquisita dalla fisica moderna?
«Se tu ti limiti a studiare lo spazio-tempo del mondo che abitiamo, ne ricavi la certezza che il tempo scorra indipendentemente dallo spazio e dalla velocità. Perché l’ora che misuri con il tuo orologio se sei sul prato di Piazza dei Miracoli o sali sulla torre di Pisa è la stessa. Dovresti avere un orologio estremamente preciso per misurare la differenza. Lo stesso succede se ti metti su un aereo e voli a New York e poi ritorni. Non hai strumenti per renderti conto che il tempo che è passato per te è diverso da quello che è passato per i tuoi amici che sono rimasti a casa. Ma quando ti allontani dal nostro sottile guscio sferico e vai nel mondo delle particelle elementari oppure cerchi di capire gli oggetti giganteschi che popolano le grandi distanze astrali, scopri che non c’è lo spazio separato dal tempo. Il tempo cambia a seconda dello spazio, se io ora guardo l’orologio e mi sposto di un metro, il mio orologio continua a funzionare esattamente come prima. Ma se mi sposto di un milione di chilometri le cose cambiano. Il tempo è una caratteristica locale e infatti si chiama spazio-tempo. Non puoi separarli, non c’è un tempo separato dallo spazio, ti sposti nello spazio e ti stai spostando in una posizione in cui il tempo fluisce a una velocità diversa. Hai visto il film Interstellar? Un astronauta si avvicina a un buco nero, e trascorre un’ora nelle vicinanze del mostro cosmico. Per lui sono passati solo sessanta minuti, ma per gli abitanti della terra sono trascorsi quasi quarant’anni. Il tempo vicino a un buco nero o a un oggetto molto massiccio scorre a una velocità molto diversa da quella a cui siamo abituati noi terrestri. Se poi, per esplorare una stella lontana, qualcuno viaggerà su un’astronave che potrà raggiungere velocità prossime a quella della luce, quando per lui saranno passati pochi anni, per noi, rimasti sulla terra, il suo viaggio apparirà un’avventura interminabile. Il tempo è legato alla velocità e alla vicinanza di oggetti massicci; il tempo è indissolubilmente collegato alla posizione, lo spazio-tempo appunto. Ancora più strabiliante scoprire che questo strano oggetto è qualcosa di fluido, di elastico, che vibra e oscilla; non è un qualcosa di rigido come l’abbiamo sempre immaginato. L’esempio più eclatante di questa vibrazione dello spazio-tempo sono le onde gravitazionali, che sono state rivelate l’anno scorso».
Cercare mondi. Esplorazioni avventurose ai confini dell’universo, sembra di trovarci di fronte a un avvincente romanzo di avventura o di fantascienza. A cosa alludono il titolo e il sottotitolo? Esistono nel cosmo altri mondi e altre forme di vita?
«Noi scienziati cerchiamo altri mondi, nel senso che ci allontaniamo dal nostro ambiente abituale, quel sottile guscio sferico di cui parlavamo prima. Se esplori i confini della conoscenza devi avventurarti fra le cose più piccole che mente umana possa immaginare e, in direzione opposta, in quello delle strutture più grandi che si possano concepire. In queste due dimensioni, cosa vuol dire trovare mondi? Non devi immaginare che nel mondo delle particelle elementari, popolato da quark ed elettroni, dove abbiamo scoperto il bosone di Higgs, tu trovi degli ominidi che vivono lì. No, Cercare mondi vuol dire scoprire aspetti della realtà che non potevi neanche immaginare. Per esempio, esplorando il mondo microscopico nei suoi dettagli più minuti potremmo scoprire forme di materia che si sviluppano su sei-dieci dimensioni. Questo ci dicono alcune teorie che stiamo cercando di verificare. Se vai a scandagliare la materia su distanze molto piccole potresti scoprire dimensioni nascoste del nostro universo. Non devi immaginarle come una porta che apri e vedi degli altri signori che stanno giocando a carte. No, stiamo parlando di una visione concettuale nuova, assolutamente rivoluzionaria. Il giorno in cui scoprissimo extra-dimensioni spaziali, di questo parlano alcune teorie, dovremmo cambiare la nostra descrizione del mondo e dire: il nostro universo non si sviluppa più nelle tre dimensioni spaziali più quella temporale, le quattro dimensioni abituali, ma ce ne sono altre che sono state aperte nei primissimi istanti subito dopo il Big-Bang per poi richiudersi immediatamente. E subito la questione diventerebbe: ma cosa c’è, che tipo di materia c’è in queste altre dimensioni, che tipo di particelle vengono fuori in questi nuovi mondi. Immediatamente si porrebbe anche il problema: si può immaginare di fare un viaggio in queste extra-dimensioni e dove ci porterebbe questa nuova avventura?».
Nel tuo libro si parte da un assunto molto chiaro e semplice: la nostra infinita piccolezza, ma poi sostieni che gli atomi del nostro corpo provengono dalle stelle. Dunque, aveva ragione Alan Sorrenti a cantare Figli delle stelle?
«Sì, talvolta lo dico, scherzando, anche nei dibattiti. La strofa che cantava Alan Sorrenti negli anni Settanta, «noi siamo figli delle stelle», è una frase scientificamente corretta. Tutti i nuclei degli atomi pesanti, l’ossigeno che compone l’acqua, il ferro che è negli scafi delle navi e nell’emoglobina del nostro sangue, il carbonio di tutte le molecole organiche, il calcio delle ossa, il silicio delle rocce e così via, cioè una larghissima frazione degli atomi di cui siamo fatti noi e di cui sono fatti gli oceani e il frigorifero, le banane e la crosta terrestre da dove vengono? Non sono stati prodotti nel Big Bang, perché in quel momento iniziale sono nati solo i componenti più leggeri come l’idrogeno e l’elio. Come si sono formati questi elementi pesanti? Con quale meccanismo? Oggi sappiamo che si sono prodotti nel cuore delle stelle più massicce dell’universo. Lì le pressioni dovute all’immensa forza di gravità sono talmente elevate che i nuclei leggeri sono schiacciati fino a fondersi fra loro e così nascono nuclei sempre più pesanti. Ecco che all’interno di quelle fornaci gigantesche si formano enormi quantità di ferro, di silicio, di carbonio che rimangono confinate all’interno della stella-madre fino a quando questa non esaurirà il combustibile. La stella smetterà di “bruciare” quando tutto l’idrogeno si sarà trasformato in elio, come succederà anche al nostro sole fra qualche miliardo di anni. Allora, di colpo, la terribile forza di attrazione gravitazionale farà collassare il nucleo centrale della stella in un corpo sferico, molto compatto. Se la stella è enorme potrà diventare una stella di neutroni, o addirittura un buco nero. Un incredibile lampo di luce illuminerà il cielo e il resto della materia che costituiva il cuore dell’immenso astro verrà espulso a velocità spaventosa in tutto lo spazio circostante: è la nascita di una supernova.
Ecco che la gigantesca esplosione espelle le enormi quantità di ferro, silicio, carbonio e ossigeno che stavano nascoste nel cuore della stella; si disperdono nello spazio sotto forma di polveri e vagano senza meta fino a quando cadono nel campo gravitazionale di una stella vicina o si aggregano a formare con altre nebulose una nuova stella intorno alla quale orbitano pianeti rocciosi. È così che si forma un sistema solare. Gran parte della terra, gran parte di tutto quello che compone rocce e oceani, aria e piante, gli elementi che compongono la nostra carne e le nostre ossa vengono proprio dal cuore delle stelle».
Al centro del tuo libro e del tuo lavoro ci sono domande come queste: Cosa sono queste stelle in cielo? Quando finiranno? Perché viviamo in questo mondo fatto di materia? Da dove viene questa bellezza dell’universo? Sono vecchie domande che rimandano alla filosofia, alla religione, alla scienza. Allora, che cos’è la fisica, come cerca di rispondere a questi interrogativi? Quali sono le qualità fondamentali che un buon fisico deve avere oltre al fatto che deve studiare sodo e lavorare in squadra: l’immaginazione e il coraggio di correre il rischio, la cautela e la precisione del metodo?
«Occorre ricercare un difficile equilibrio; se lo scienziato non ha il coraggio di avventurarsi in territori sconosciuti non sarà mai un buon scienziato. Se devi raggiungere la cima inviolata di una montagna e hai paura di imboccare un percorso nuovo perché potrebbe portarti al precipizio, non ce la farai mai. Ugualmente non sarai un buono scalatore se sei troppo imprudente, cioè se agisci senza riflettere, senza considerare che l’appiglio può cedere, che ci può essere un pericolo, un crepaccio invisibile che ti può inghiottire da un momento all’altro. Fuori dalla metafora, la ricerca è una continua altalena fra slanci di immaginazione, che coinvolgono anche la parte emotiva, e il ritorno, attraverso la razionalità e il controllo, al metodo scientifico che ti fa verificare le ipotesi fatte. È come avere due gambe, è necessario muoversi come un pendolo. Ci sono momenti in cui hai bisogno di immaginare cose nuove e periodi in cui è necessario verificarle, muovendoti con un’estrema prudenza e una grande pazienza. Lì l’immaginazione non aiuta, anzi può essere di ostacolo. Non mi riconosco in questa immagine del fisico pazzo che vive in un mondo tutto suo. Noi scienziati facciamo un lavoro che ha degli aspetti anche di routine: devi controllare, verificare e ricontrollare, insomma molto noioso. Ci sono momenti, però, in cui c’è lo strappo, ti butti in una specie di sogno, immagini una soluzione e poi la devi verificare. Penso che sia così in tutti i campi in cui si cerca di fare qualcosa di nuovo; un poeta, uno scrittore o un musicista, se è troppo cauto non scriverà mai una poesia o un brano nuovo, ma se scrive senza pensare, è chiaro che le cose che produce avranno dei difetti, degli errori. Può avere un’intuizione repentina, ma poi per svilupparla, magari ci impiega anni per limare, correggere, verificare che non sia già stato detto, o cambiare questo o quel dettaglio. Questo è un po’ l’esempio che uso, cioè combinazione creativa di un lavoro certosino, artigianale e sistematico condito da momenti di intuizione e di slancio».
Facciamo finta che ci sia la tua nipotina, facciamo un salto all’indietro nel tempo di 13,8 miliardi di anni fa, siamo prima del Big Bang, l’istante in cui nasce l’universo, cosa si vede?
«Supponiamo per un attimo di essere lì a vedere quello che succede. È chiaro che quello che sto dicendo viola tutte le leggi della fisica. Lì non c’è spazio, né tempo, non c’è aria per respirare, né luce per vedere. Però l’esercizio di immaginazione ci aiuta a capire. Nel libro, volutamente, non uso formule né equazioni matematiche, perché so che, se lo facessi si creerebbe subito un muro, e quello che scrivo sarebbe capito da dieci persone; vorrei invece che Cercare mondi fosse letto da tutti, in particolare da quelli che rifiutano la fisica, perché la considerano difficile. Mi piacerebbe fosse letto anche da coloro che odiano la fisica, perché in realtà la nostra disciplina è una cosa molto bella. Ho quindi cercato di raccontare per immagini quello che sappiamo. Quando traduci in immagini concetti complicati devi accettare che la descrizione non sia perfetta, che contenga, per certi versi, molte imprecisioni. Però l’immagine avvicina, permette di seguire il racconto e quasi di diventarne protagonista: tu stesso puoi immaginare ciò che descrivo e figurartela a tuo modo. Questo è il meccanismo che ho usato nel libro e sembra funzionare. Quasi ogni giorno ricevo mail di lettori che mi ringraziano; gente che dice: devo dire la verità, non ho mai avuto nessuna passione per la fisica, ma ho letto il suo libro e ho capito tutto; all’inizio ero un po’ scettico, però un mio amico mi ha detto che si capiva e che era bello e mi sono appassionato a questo racconto; ora guardo alla realtà che mi circonda in modo diverso, per certi versi la mia vita è cambiata perché guardo il cielo e vedo cose che prima neanche potevo immaginare. Ecco, tutto questo lo puoi fare se usi delle immagini. Questi lettori hanno capito il linguaggio che ho usato e lo hanno fatto proprio e quindi ora vedono le cose attraverso una loro interpretazione di quello che sappiamo dal punto di vista scientifico. Quindi, se torniamo ai primi momenti, ai momenti iniziali, io me li immagino così: buio, una cosa terribilmente buia, che però si muove, è frenetica, ribolle. Il vuoto, che “precede” il Big-Bang non mi appare come una cosa noiosa e statica, una specie di tenda nera ferma; se immaginiamo di fare uno zoom mostruoso per vederlo nei più minuscoli dettagli, vedremmo tutto in movimento, come un mare che si agita. Il movimento è infinitesimo, le increspature ridicolmente piccole, ma da quelle minuscole fluttuazioni nasce l’enorme universo che ci circonda e si produce il meccanismo che porta fino a noi».
Nel tuo libro prende consistenza una strana grammatica fatta di parole che rimandano al nulla, invece non sono il nulla, anzi: silenzio, vuoto, zero. Perché sono così importanti?
«Rispetto a questi tre concetti abbiamo una barriera. Se io dico silenzio, vuoto e zero ottengo immediatamente un distacco e un po’ di angoscia, quasi di paura. Viceversa cerco nel libro di cambiare la percezione di queste parole e farne capire la ricchezza. Il silenzio, il vuoto, lo zero sono in generale visti come l’assenza di suono, il nulla, il non-numero. E invece a me piace immaginare proprio l’opposto: per esempio far vedere che il silenzio è pieno. Hai mai sentito il silenzio? Ti posso raccontare questa esperienza. A me è capitato la prima volta nel Sahara, in viaggio con Luciana, di notte; un ragazzo che ci guidava ci ha portato in un posto isolato, fra le dune, a vedere le stelle. Ecco lì ti trovi in una condizione in cui puoi ascoltare il silenzio; e subito scopri che non siamo abituati a sentirlo, perché nella nostra vita il silenzio non c’è mai, è una specie di grande assente. Se ci fai caso, anche quando ti rinchiudi in casa hai sempre il vicino, una macchina lontana, la pioggia; anche in una casolare isolato e con i doppi vetri alle finestre è difficile sentire il silenzio. Tanto è vero che ne abbiamo perso la percezione. Non so se hai visto quel film bellissimo Il grande silenzio, di quel pazzo di regista che ha atteso diciotto anni per riuscire a girarlo. Philip Gröning ha fatto una richiesta di girare un film in una grande certosa, ancora in funzione, sopra Grenoble e che è una delle prime certose storiche. Bellissima, è in mezzo ai monti e lì c’è la regola del silenzio; il regista ha fatto domanda e il priore gli ha risposto solo dopo molti anni accordandogli il permesso. Lui ha passato un anno con i monaci, accettando le loro regole e ha ripreso una piccola storia, un documentario meraviglioso che comincia con la prima nevicata d’inverno; naturalmente nella grande certosa c’è il silenzio, e si sente il rumore dei fiocchi di neve che cadono sulle foglie degli alberi. Ecco che si riesce a sentire un suono che noi non possiamo più sentire: il rumore che fa un fiocco di neve che cade su una foglia in un bosco; non possiamo più ascoltarlo perché è un piccolo rumore e siamo sovrastati da tutto il resto. Ecco, per il libro ho utilizzato questi spunti che mi intrigano molto. Fra le altre cose considero il silenzio un bene prezioso, e sono irritato dal fatto che c’è rumore ovunque. Vai in un ristorante per passare una bella serata con la tua compagna o a fare una chiacchierata con i tuoi amici e c’è musica ad alto volume; vai in negozio a comprare un paio di pantaloni e pare di essere ad un concerto rock; vai all’aeroporto e c’è frastuono. Sembra quasi che vogliano toglierti ogni occasione di rimanere in silenzio, magari per riflettere. Spinto da questi elementi ho cercato di capovolgere il concetto. Il silenzio somiglia molto al vuoto che noi maneggiamo, per esempio al Cern, quando facciamo collidere protoni e, negli urti, produciamo nuove particelle; in realtà percuotiamo il vuoto, diamo una specie di martellata e dal vuoto schizzano fuori materia e antimateria. Cioè noi, quotidianamente, vediamo che il vuoto non è il nulla, anzi è una specie di giacimento inesauribile. Allora come faccio a rendere chiaro questo concetto che per noi è banale? Ho cercato di farlo con un’analogia che è quella del silenzio e dello zero. Lo zero contiene +1 e -1, lo puoi vedere come il non-numero oppure come il numero che contiene un’infinita quantità di numeri positivi e negativi sommati fra di loro: la loro somma è ancora zero. E così il vuoto e il silenzio. Il silenzio lo puoi vedere come una somma infinita di suoni in opposizione di fase; il suono è una particolare vibrazione dell’aria, se prendi due oscillazioni identiche ma sfasate in maniera che il massimo dell’una corrisponda al minimo dell’altra, la vibrazione si annulla: dalla sovrapposizione di due suoni nasce il silenzio perfetto. E allora il silenzio lo puoi vedere come una sorgente di tutti i suoni, una specie di miniera in cui sono contenuti tutti i suoni; il musicista estrae dal silenzio alcuni di questi suoni e lascia una specie di buco nel silenzio, che è il suono complementare a quello che lui usa».
La caccia delle onde gravitazionali, fenomeno previsto da Einstein un centinaio di anni fa, è avvenuta nel 2015 grazie a una collaborazione triangolare avvenuta in tre luoghi: Livingston, Hanford, Cascina. Nel libro descrivi questa scoperta.
«Al solito, racconto la pazienza che ci vuole. Questo è un esempio di ciò di cui si parlava prima. Ogni nuova grande impresa nasce da un sogno. Pensa a questo piccolo gruppo di matti, tre in America e uno qui a Pisa, Adalberto Giazotto, che nei primi anni Ottanta, immaginava di riuscire a registrare queste vibrazioni sottilissime dello spazio-tempo. Devi sapere che, all’inizio, tutta la comunità scientifica li prendeva per matti, quasi sbeffeggiandoli: “Voi non ce la farete mai, ma figuriamoci! Se ci sono queste onde gravitazionali sono talmente deboli che i vostri strumenti non saranno mai in grado di rivelarle. Farete un buco nell’acqua gigantesco.” Ecco, prima si parlava della passione per produrre nuove idee e del coraggio di imboccare sentieri mai battuti. Ma anche della necessità di avere un’enorme pazienza, una grande freddezza. Perché, come è capitato anche a noi, per realizzare il loro sogno hanno dovuto lavorare per decenni. Sono riusciti a ottenere la sensibilità che avevano sognato praticamente dopo trent’anni; hanno ideato i progetti a fine anni Ottanta, poi negli anni Novanta hanno avuto i primi finanziamenti, ma ci sono voluti altri vent’anni per costruire questi grandi interferometri, tra cui quello di Cascina, e arrivare infine alla rivelazione delle onde gravitazionali. Il segreto del successo sta ancora una volta in quell’intreccio di intuizioni e di sogni combinati con una infinita pazienza e un lavoro cane che può durare anche decenni».
Se questo è l’atteggiamento più corretto del ricercatore, dello scienziato, come mai tutte le volte c’è sempre la comunità scientifica che ti mette di fronte al possibile esito negativo?
«È normale, è avvenuto anche nel caso della ricerca del bosone di Higgs. È un fatto generazionale, perché le idee nuove sono spesso portate avanti da giovani. Capita ogni tanto che anche qualche persona della mia età possa tirar fuori qualche buona idea, ma è raro; il più delle volte è un ragazzo, o una ragazza di trent’anni o giù di lì che dice: vorrei provare a fare questa cosa qui. Allora la comunità scientifica, che è formata da professori che sono diventati più anziani, sono conosciuti, grosso modo della mia età diciamo, in generale ha un atteggiamento conservativo. Mi sono trovato da giovane ad essere nella parte di quello che proponeva nuove idee e trovavi Carlo Rubbia o altri che dicevano: voi siete pazzi, non funzionerà mai. Ora mi trovo dall’altra parte della barricata, magari sono io a dire: no guardate che questa roba qui non sta in piedi. Perché? È una dinamica, per certi versi, positiva perché mettere i bastoni fra le ruote a chi ha in mente idee nuove è anche salutare; costringe chi ha una proposta ad affinarla, a renderla più convincente. Alla fine ci hanno dato le risorse che chiedevamo e siamo riusciti a fare quello che volevamo. Se fin dall’inizio ci avessero detto: ok bravi ci avete convinto, diamo loro tutto quello che vogliono, forse non saremo arrivati a questo punto. Questa dinamica per cui il giovane scalpita dalla voglia di fare e l’establishment più anziano è più conservatore, critica e scoraggia, costringe chi propone cose nuove a sviluppare idee talmente convincenti che non gli si può che dire di sì. E questo è successo anche per le onde gravitazionali; alla fine, dopo anni di patimento le agenzie finanziatrici hanno dovuto dire: ok, avete ragione, ci avete convinto, partite a costruire questi interferometri».
Che ruolo hanno avuto e svolgono Pisa con la sua Università e i centri di ricerca dei dintorni come Cascina in questa caccia e in questa ricerca?
«Negli ultimi cinque anni si sono avute le due scoperte più importanti di questo XXI secolo; non ho remore a dire che si ricorderanno ancora tra cento anni, resteranno nei libri di storia della fisica, perché sono due pietre miliari. L’una nell’infinitamente piccolo e l’altra nell’infinitamente grande hanno messo un punto: il bosone di Higgs c’è, è quello lì e l’hanno trovato al Cern; le onde gravitazionali, previste da Einstein cento anni fa, sono state registrate. In queste due scoperte il ruolo che ha avuto la gente di Pisa, non solo gente come me e Giazotto, ma molte decine di altri giovani e meno giovani scienziati è stato cruciale, e in tutto il mondo questo ruolo è riconosciuto. Certo non eravamo da soli, il lavoro si svolge all’interno di grandi collaborazioni con migliaia di scienziati, ma Pisa si trova indiscutibilmente al centro dell’attenzione della comunità scientifica internazionale, perché è un fatto che in queste due scoperte abbiamo giocato un ruolo importante. Questo ci dice molto sul fatto che a Pisa abbiamo una rete di strutture di ricerca che è fra le migliori del mondo. Abbiamo un’università che è ottima e, come pisani, siamo dotati di una certa aggressività. Siamo conosciuti per avere un atteggiamento piuttosto sbrigativo, quasi piratesco; per carattere andiamo al sodo, non ci perdiamo in chiacchiere, non siamo per niente burocratici e legnosi. Tutte caratteristiche che pagano in un ambiente competitivo come quello della ricerca, perché alla fine, nelle grandi collaborazioni internazionali conta chi ha idee, una buona organizzazione e anche chi ha una certa aggressività. Insomma, per tutti questi motivi, siamo effettivamente fra le istituzioni più importanti del mondo. Nel campo della ricerca in fisica fondamentale il fatto che ci sia Virgo, l’Infn, l’Università, la Scuola Normale, il Sant’Anna ci mette in una situazione di eccellenza. Mi piacerebbe fosse così anche per la chimica, la biologia, la medicina, e molti altri settori strategici per la ricerca».
Un libro va letto e non soltanto raccontato, dunque senza dire troppo da togliere curiosità al lettore, una parte importante è dedicata al rapporto tra scienza e fede, richiami l’insegnamento del sacerdote scienziato Lemaître e ricordi una conversazione con l’astronomo Consolmagno, gesuita e direttore della Specola, la massima istituzione scientifica dello Stato della Chiesa. Sei appassionato di fisica e di tecnologia, ma dialoghi volentieri con Remo Bodei e Maurizio Iacono, che sono filosofi. Non è un po’ paradossale che un fisico delle particelle ricerchi anche questo intreccio tra filosofia, letteratura, musica, scienza e religione?
«Ma no, tieni conto che questa divisione fra scienza e cultura umanistica è una cosa recente. Io insisto a dire che siamo prigionieri di un pregiudizio che è nato duecento anni fa, un periodo che su una scala di millenni è niente. Galilei, grande scienziato, non era un fisico, era un filosofo della natura. Ancora oggi, quando superi il dottorato, si dice che prendi il PhD, cioè diventi dottore in filosofia; c’è ancora nelle parole la vecchia radice. D’altra parte se pensi a Newton, a Galilei stesso, a Einstein, è vero che sono grandissimi scienziati, ma avevano anche una visione del mondo e una curiosità di tipo filosofico. Questa spinta rimane alla base della passione per la fisica in molti di noi. Io stesso talvolta sento fortissima la spinta a cercare di dare una risposta agli interrogativi sui quali si interroga la filosofia. C’è stata una separazione, a un certo punto, specialmente in Italia ma un po’ ovunque, c’è stata questa specializzazione: la scienza è andata da una parte e la filosofia, le attività umanistiche dall’altra. Tuttavia penso che soprattutto noi, che siamo italiani, abbiamo nel nostro Dna un intreccio indissolubile tra cultura umanistica e cultura scientifica. Ce l’abbiamo perché Galilei componeva musica, Leonardo dipingeva e insieme progettava macchine, Leopardi conosceva tutta l’astronomia della sua epoca. La nostra cultura, la nostra spina dorsale è quella, è l’uomo del Rinascimento per il quale questa suddivisione è ridicola. Ora questa idea l’abbiamo persa e non ci possiamo neanche paragonare a quei giganti; ma, come dico nel libro e lo sostengo dappertutto, è ora di finirla con questa divisione. Gli scienziati hanno bisogno dei filosofi, degli artisti, dei poeti e viceversa. Perché? Noi miglioriamo continuamente la nostra visione del mondo e vediamo che ci sono delle opzioni, ci si presentano delle diverse alternative, delle biforcazioni. Allora chi decide in che direzione andare? Lo decidono gli scienziati da soli? O forse non sarebbe più saggio che lo decidessero gli scienziati insieme agli artisti, insieme ai filosofi, insieme a gente che ha più capacità di discutere, per esempio, il nostro ruolo nel mondo. Tu pensa al cambiamento di paradigma che nasce dal fatto di scoprire che ci sono altri mondi abitati; è un vero e proprio choc culturale. Oppure immagina il giorno in cui avremo degli incontri con questi altri mondi. Il futuro ci riserva questo. Allora nessuno può preparare l’umanità a questo salto meglio di umanisti, artisti, filosofi, a patto però che conoscano e capiscano il punto cui è arrivata la scienza moderna».
È uscito anche un libro, La nuova fisica delle particelle e i segreti dell’universo, un dialogo tra te e Bodei.
«È la trascrizione della conversazione che abbiamo fatto alla scuola della Cattedrale a Milano, dove Monsignor Borgonuovo ci aveva invitato a una discussione su filosofia, scienza e religione. Come dicevo sopra considero questa divisione una cosa preistorica, un retaggio del passato; in realtà per instaurare un dialogo bisogna capirsi a vicenda; io non sarò mai un esperto di filosofia, ma devo riuscire a capire quello che dice Bodei e viceversa. Per parte mia considero un dovere spiegare a tutti a che punto siamo dal punto di vista della visione del mondo che viene dalla scienza. Ecco che ci dobbiamo mettere insieme per costruire una visione comune che superi quella divisione».
Che fine farà il nostro universo? Per rispondere a questa domanda presenti due scenari che qui non riassumo. A un certo punto scrivi: “Trovo meraviglioso che le nostre osservazioni possano stabilire una relazione fra la precarietà della condizione umana e quella dell’universo”. C’è sempre diffidenza nei confronti della verità, dal mito della caverna in poi, tu invece parli della “precarietà cosmica” come qualcosa di meraviglioso. Perché? Cosa è cambiato nella psicologia umana da poter sopportare anche la verità che l’universo gira, gli astri sono in movimento e che tutto questo che pensavamo immortale può invece finire da un momento all’altro?
«Di fronte a questo ho visto che si producono due reazioni; te le racconto per come le registro. Ci sono alcuni, che leggono il libro, oppure che ascoltano le discussioni su questo punto e ne ricavano una profonda depressione. Un mio amico mi ha confessato: “Ero già abbastanza angosciato dalla mia morte (alla nostra età si inizia a fare i conti col fatto che potrebbe succedere) ed ero preoccupato per il fatto che, prima o poi, mi toccherà abbandonare questo mondo, però avevo una consolazione: perché la Torre di Pisa, il Duomo di Firenze, il bel paesaggio della Toscana, il mare e le belle ragazze rimanevano; insomma mi consolava sapere che il mio ciclo finiva, ma tutto il resto continuava. Ora tu mi togli anche questo appiglio, mi dici che anche questa bellezza finirà e mi getti nella disperazione più cupa”. Questa è la reazione di spaesamento. All’altro estremo c’è un’altra reazione, di grande comunanza e consolazione, che è quella che ho avuto anch’io. È una specie di liberazione. Per migliaia di anni abbiamo pensato: la nostra vita è breve, basta un nonnulla per ridurre in polvere noi, miseri mortali, ospiti temporanei di un mondo che ci sovrasta e ci è apparso, da sempre, immortale nelle sue grandi strutture materiali. La terra, il sole, le stelle, l’universo intero continuano a vivere mentre noi ce ne dobbiamo andare: una disdetta terribile; proprio su di noi doveva abbattersi questa fatwa che ci costringe a essere mortali in una struttura materiale meravigliosa ed immortale. Così l’abbiamo pensata per tre-quattromila anni e abbiamo subito una frustrazione enorme. Ora la scienza ci dice: guarda, forse era sbagliata l’ipotesi di partenza; questa tua fragilità, che tanto ti ha angosciato, forse è il tratto comune di tutte le cose materiali; non ti devi sentire il figlio di un dio minore perché muori e la tua esistenza è precaria; al contrario quel tratto di fragilità ti accomuna a tutto, perché le cose, tutte le cose, anche quelle che sono gigantesche e ci sovrastano, sono intrinsecamente fragili; non c’è nulla che sopravvivrà in eterno, ci sarà un ciclo per ogni cosa, non solo per la terra e il sistema solare, anche per l’universo intero. Da questa nuova consapevolezza puoi ricavare grande conforto, puoi dire: ok, non devo vedermi come una cosa strana, per tutti vale la stessa regola, la mia precarietà e la mia fragilità rispecchiano quelle dell’universo nel suo complesso. E ne ricavi, nella consolazione, un maggiore apprezzamento dell’effimero, cioè di quello che sai già che finirà. Per esempio, il numero di fioriture annuali che possiamo vedere nel corso della nostra esistenza è limitato; se ne sei consapevole e ci rifletti sopra, apprezzerai molto di più il periodo magico di quando arriva la primavera e vedi le prime gemme e senti il loro profumo. Sei in grado di apprezzarle molto di più proprio perché sai che quelle bellezze sono effimere, come può essere una cena tra amici, come può essere l’amore, come può essere la relazione con i figli o con i nipoti».
Per finire, vorrei toccare due tasti delicati. Cosa ricordi della tua infanzia a Casola in Lunigiana? Ricordi se Guido bambino aveva già questa passione per le stelle e per la natura?
«No no, io da bambino sognavo, come tutti i bambini, di diventare calciatore o aviatore. Ero un ragazzino di paese, Equi Terme, una frazione di Casola, trecento abitanti. Da bambino andavo a cercare le bisce, le lucertole e gli uccellini, giocavo a pallone con gli amici o andavamo a rubare le ciliegie; queste erano le attività principali della mia infanzia. Avevo una grande curiosità, quella sì, sicuramente ereditata da mio padre, che faceva il ferroviere e aveva la terza media, ma era una persona estremamente intelligente e curiosa; mio padre leggeva libri e riviste di tutti i generi e io gli facevo mille domande: parlavamo per ore. Forse quello che più ha influenzato questa mia curiosità è la pazienza di mio padre che, anziché liquidare la domanda del bambino in due parole, stava con me a discutere per giornate intere quando era libero dal lavoro. Ricordo molte discussioni sull’arte, lui era appassionato di pittura; mi spiegava l’arte antica e quella contemporanea e mi trasmetteva, inconsciamente, questa sua passione; da lì forse ho preso questa sbandata».
Quando sei arrivato a Pisa eravamo nei pressi del 1968, quasi cinquant’anni fa, che clima hai trovato, quali incontri importanti hai fatto, quali ricordi più cari hai?
«Sono arrivato a Pisa nel ’69, me lo ricordo come se fosse un destino. Arrivo verso ottobre, insomma prima che cominciassero le lezioni, era un giorno in cui c’era una manifestazione e poi gli scontri sui lungarni. Mi considero enormemente fortunato, per aver incrociato a diciott’anni la Pisa di quei tempi: città ribelle, piena di giovani ribelli che sognavano di rovesciare tutto. Ho avuto la fortuna di affacciarmi al mondo in un’epoca in cui circolavano sogni grandiosi, c’era passione e curiosità ovunque, si stabilivano in un nanosecondo relazioni umane così profonde che sarebbero durate tutta la vita. Quell’incontro mi ha segnato per sempre; ho partecipato intensamente alle lotte di quegli anni e ho continuato per decenni, in seguito, a fare attività politica diretta, ma anche ora, che non ne faccio più, ho dentro di me un fuoco e una passione che è sempre quella; perché la curiosità per il mondo, l’orrore dell’ingiustizia, l’essere furibondo nel vedere che si potrebbero risolvere le cose in maniera diversa e non lo si vuol fare perché ci sono interessi, queste cose sono rimaste dentro di me e forse sono sfociate anche nel mio lavoro; cioè questo fatto di cimentarsi in imprese impossibili, forse richiama un po’ quella fase lì».
L’ho pensato anch’io.
«Sì, penso di sì. Anche Carlo Rovelli era un giovane ribelle nella Bologna del ’77 e abbiamo molte cose in comune: siamo due fisici, lui teorico io sperimentale, impegnati in imprese difficili. Lui cerca di unificare la gravità e la relatività, io ho dedicato la mia vita a scoprire il bosone di Higgs. Questo è ancora un po’ quello spirito; la volontà di cambiare la visione del mondo, di rivoluzionare, uso proprio questa parola, lo stato di cose esistenti, quasi come non ci fosse una contraddizione tra l’impegno politico che mi ha impegnato per anni e la passione che metto nella ricerca scientifica. Alla fine spero di fare qualcosa di utile per l’umanità anche in questo modo».
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