Roma bene (Carlo Lizzani, 1971)
Il 2013 è stato l’anno de “La grande bellezza”: successo di critica, e dopo l’Oscar 2014, anche di pubblico. Tuttavia, ben quattro decenni prima, c’era chi come Carlo Lizzani anticipò tutto il male della borghesia capitolina in Roma bene. Se l’opera di Sorrentino ha dentro sé elementi di misticismo, surrealismo e lascia spazi aperti alla redenzione personale, il film di Lizzani è un’opera satirica in nero, grottesca, moralizzatrice ma non moralista e dalla forza profondamente distruttrice.
Non c’è tempo di finire di ascoltare il pop-rock sinfonico firmato Luis Bacalov sopra i titoli di testa e già comincia a delinearsi quella che sarà la cifra stilistica, pregna di amaro sarcasmo, che aleggia per i novanta minuti del film. Ci vengono presentati subito due personaggi apparentemente positivi, due poliziotti (un commissario – Nino Manfredi – e il suo sottoposto – un inedito Enzo Cannavale doppiato con un dialetto del nord Italia) che hanno il compito di vigilare sulla festa organizzata dai coniugi Santi (Virna Lisi e Philippe Leroy); questo party è usato da Lizzani per introdurre le caratteristiche – sempre negative – di tutto il cast: Vittorio Caprioli è un nobile decaduto che si diletta nel furto, Franco Fabrizi e Michèle Mercier sono i coniugi Rappi (arricchiti e ignari delle loro perverse vite parallele), Senta Berger e Umberto Orsini interpretano i principi Marescalli, non mancano il prete dalla morale ripugnante (Gastone Moschin) e il commendatore (Gigi Ballista) che vuole comprare una Ferrari al suo piccolo bambino che ha appena sparato, durante una battuta di caccia, ad un ambasciatore nero.
Roma bene è costruito come un puzzle: ci sono scene collettive come il party iniziali, la battuta di caccia e la terribile scena finale (di cui non svelerò il contenuto) che servono al regista per descrivere la decadenza di questo mondo; a queste visioni d’insieme, che vanno considerate come le scene madri del film, Lizzani unisce storie parallele ancora più corrosive che vanno a toccare la prostituzione, la corruzione clericale e del corpo di polizia, il finto interesse maoista di certa classe dirigente italiana del periodo e naturalmente l’omicidio.
Il regista, interpellato da La Stampa nel 1971, dichiarava che il film non era un instant-movie sul fatto di cronaca nera dei marchesi Casati (avvenuto l’anno precedente), bensì “un cocktail di fatti clamorosi, ma raccontati tutti in modo indiretto, frammischiati gli uni agli altri. Dire che mi sono rifatto a questo caso o quello scandalo non è giusto…posso dire che, diversamente dai miei precedenti lavori, non mi sono ispirato ad avvenimenti di cronaca determinati, ma, ripeto, ad un insieme di vicende elaborate dalla fantasia” e sul suo modo di raccontare i fatti continuava dicendo che “Roma bene non è una commedia all’italiana, ormai divenuta una formula e un filone del nostro cinema. Vuole essere, e spero sarà, un film grottesco…non ho cambiato il mio modo di raccontare, solo che avvicinandomi a questo ambiente – e sono stati mesi e mesi di ricerca e di lavoro – ho visto che dietro questa decadenza non c’è la tragedia, ma il grottesco”.
Roma bene è un lavoro quasi dimenticato – schiacciato dalla fama di Banditi a Milano – nella filmografia del compianto regista romano; un titolo che merita di essere rivisto con gli occhi della contemporaneità, per amplificare (o forse diminuire?) i mali insiti di certa borghesia e classe dirigente italiana.
- “Il cinema dipinto”, l’arte pittorica e cinematografica di Enzo Sciotti - 22 Settembre 2017
- L’anarchia antifascista di Giannini e Melato nel classico della Wertmüller - 21 Agosto 2017
- I Rhapsody con il loro tour d’addio alla Festa dell’Unicorno - 22 Luglio 2017