Tutti dentro (Alberto Sordi, 1984)
“Il tragico lo offro al pubblico in modo non angoscioso, lo mitizzo perché non diventi il “suo” tragico personale. Il beffardo permette più colore. Ma ci deve essere per tutti uno spiraglio di speranza”
Alberto Sordi è uno di quei pochi attori della grande commedia all’italiana – insieme a Nino Manfredi e Vittorio Gassman – che durante gli anni ’80 ha continuato a lavorare in modo costante. Analizzando dettagliatamente la sua filmografia (e facendola arrivare ai primissimi anni ’90) è possibile imbatterci in vari filoni e generi: dalle commedie brillanti (Io so che tu sai che io so, Una botta di vita) ai film d’ambientazione storica (Il marchese del grillo, Bertoldo Bertoldino e Cacasenno, In nome del popolo sovrano), dagli accenni fantamelò (Io e Caterina) ai più scanzonati e popolari Il tassinaro e In viaggio con papà. Ma se ci posizioniamo all’altezza dell’anno 1984 ci accorgeremo della presenza di un film poco dibattuto e raramente trasmesso dalle televisioni nazionali: Tutti dentro.
Se il Sordi attore non era nuovo a tematiche sociali che strizzavano l’occhio all’ambiente giudiziario – Detenuto in attesa di giudizio (Nanni Loy, 1971) – e ai risvolti drammatici della deriva della borghesia media italiana – Un borghese piccolo piccolo (Mario Monicelli, 1977) – è con Tutti dentro che il Sordi regista e autore si mette a nudo con un’opera maledettamente politica e preconizzatrice dei disastri della classe dirigente degli ultimi 30 anni.
Con l’aiuto del fedele sceneggiatore Rodolfo Sonego, Sordi mette in scena una vicenda che tiene in disparte le gag e le situazioni comiche, approfondendo i vizi, le virtù e i comportamenti del giudice Salvemini. L’impronta registica di Sordi non è mai di stampo virtuoso ma è utile a squadrare la parabola di un uomo di legge che, dal momento in cui prende in mano l’indagine atta a scardinare truffe, tangenti e corruzione, si trova vittima del sistema per colpa del suo essere ingenuo, o meglio uomo medio.
Quell’uomo, da sempre raccontato con freddo cinismo da Sordi, è qui tolto dal classico gioco della comicità e trasportato in un’ottica più grottesca. Come antagonista venne scelto l’attore americano Joe Pesci (reduce dal successo di Toro scatenato) e una pletora di ottimi caratteristi, bravi nel rappresentare un’intera classe di corrotti e corruttori. Pessime, o meglio inadatte, le musiche del solito Piero Piccioni, perché è si vero che riescono immediatamente ad inserirci nell’universo di Alberto Sordi, ma stonano irrimediabilmente con la vicenda cupa che viene raccontata nei 100 minuti scarsi del film.
Se prendiamo per vera la definizione che Antonio Guastella coniò per il cinema civile-politico italiano, ovvero pellicole che hanno come tematiche soggetti direttamente ispirati a problematiche politiche della società, è giusto considerare Tutti dentro come una pellicola erede dell’epopea filmica militante di Francesco Rosi, Elio Petri o Marco Bellocchio? La risposta è si, se si considera il senso stretto della definizione; la risposta è no, se si ricercano soluzioni a quelle problematiche politiche della società. Sordi non è un cineasta anti-sistema, non lo è mai stato e lo conferma pure in questo film. Il film non presenta deformazioni dell’apparato di polizia e della magistratura, anzi il suo giudice Salvemini è l’immagine ingenua di una persona ligia al ruolo istituzionale che, alla fine, pagherà tutti i suoi errori.
Parlando della genesi e della fisiognomica del personaggio, Sordi, interpellato da Nevio Boni de La Stampa, disse: “m’è venuta così. Quando ho cominciato a masticare sto magistrato, che vedi caso se assomiglia un po’a De Michelis: i capelli lunghi che escono dai lati della capoccia…beh me pareva un po’esagerato…invece apri il giornale e te vedi gente in manette, li vonno carcerà e va bene e poi li mettono fuori e rientrano dentro…insomma devo dire che forse il personaggio ottenuto è più debole di quanto sia la realtà”. La satira grottesca messa in campo dal regista e attore romano è pienamente funzionale alla narrazione di una storia passata tragicamente dallo schermo ai titoli dei giornali… o viceversa.
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