L’Isola di Arturo – Elsa Morante
Immaginate il tempo dell’infanzia, condensato in una perla. Immaginate un’isola fantastica e al contempo reale. Immaginate un racconto iniziatico, nel quale si fondono la meraviglia della fiaba e il disincanto dell’età adulta; la sacralizzazione della vita, propria del mito e dell’epopea cavalleresca, e l’amara constatazione dell’eterno vanificarsi del tempo. Fatelo, e avrete un’idea abbastanza chiara di quanto vi attende sull’Isola di Arturo di Elsa Morante.
Uscito nel 1957, il libro vinse il premio Strega quello stesso anno.
L’isola è Procida, al largo della costa campana. Elsa Morante ce la descrive con minuzia magistrale, restituendo la perfetta immagine di un microcosmo sperimentato – e forse creato – dagli occhi del protagonista, che nelle sue aspirazioni, i suoi valori e il suo atteggiamento, incarna topos leggendario del puer/senex, ovvero del bambino adulto.
Quella di Arturo Gerace, più che una storia è una ricostruzione del tempo perduto di proustiana memoria, nella quale si alternano (e sovrappongono) tre voci differenti: quella dell’infanzia, quella della maturità (il narratore è lo stesso Arturo, ormai adulto) e quella materna della scrittrice. Orfano di madre, Arturo vive all’insegna della comunione con la natura, fra poesia e illusione, amore e trasfigurazione fantastica della realtà. Per lui il mondo non si riduce ai confini dell’isola: essa è solo la prefigurazione di un destino alto e glorioso, suggerito dalla figura inafferrabile e venerata del padre Wilhelm, un nomade dalle attività misteriose, sempre corrucciato, con barba incolta e un fazzolettone a fiorami annodato al collo. Lo splendore della vita, il suo amplificarsi nelle praterie sconfinate della prima esistenza, ci accompagnano nell’arco della prima parte del romanzo. Sono pagine di rara bellezza, puramente descrittive, snodate in un ritmo ampio e lento come l’arcuarsi della superficie marina nei giorni di bonaccia.
Ma la fine dell’idillio è in agguato. La prima a spezzare il dorato equilibrio di Arturo è Nunziata, la nuova compagna del padre. Giovanissima e perturbante, semplice e orgogliosa creatura meridionale, Nunziatella metterà a dura prova le convinzioni di Arturo circa l’universo femminile: fino a ora, per lui l’oscuro popolo delle donne era insignificante e brutto. L’universo femminile è centrale nel romanzo. Le donne sono spesso accostate al mondo animale, alla maniera di Umberto Saba, poeta tanto caro alla Morante, del quale riprende e rivisita interi versi e tematiche. Le donne, nel libro, sono portatrici di quella ascosa malinconia amorosa cantata dal poeta nel suo Canzoniere, e da esse prende avvio il travaglio destinato a terremotare le certezze di Arturo.
In due anni, il suo microcosmo, la sua fulgida armonia, saltano in aria. Assediato dall’ombra persistente e mai accettata della morte, dai tormenti dell’amore e dall’evidenza che abbatte i miti dell’infanzia (il padre in primis) Arturo sarà costretto a prendere atto della bassezza della vita a contrasto con le aspirazioni più nobili e ideali del suo cuore.
L’isola di Arturo non è un libro per frettolosi, lo si capisce fin dalle prime righe. Ma nella sua complessità fatata si nasconde una profondità vertiginosa, in grado di sondare verticalmente – e resuscitare – una stagione che tutti abbiamo lasciato alle spalle, spesso incapaci di ricordare, nella sua abbacinante, preziosa meraviglia. Leggere L’isola di Arturo significa tornare a immergersi nel mare dell’inconsapevolezza infantile, tornare a vedere il mondo come un oggetto magico, un amuleto dai poteri occulti. E al contempo ripercorrere una dolorosa presa di coscienza, squarciando il velo di menzogna e sortilegio che quel mondo avvolge.
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