Un amarcord su Galileo
«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio,
di quante ne sogni la tua filosofia»
(William Shakespeare, Amleto)
Premessa e ringraziamenti
Cosa c’è di meglio di quel misto di dolore e piacere che ti avvolge quando un ricordo passato ti prende, per rammentarti che stai invecchiando? E quale medicina è migliore della scrittura nostalgica, per rivivere quei momenti?
È con questo spirito che qualche giorno fa, davanti a una pizza, ho accolto l’invito di Filippo Bernardeschi a dire qualcosa su Galileo per TuttoMondo, e offrendo ora ai lettori una pagina inedita del mio diario di vita personale ne approfitto per ringraziarlo pubblicamente.
Ha davvero ragione lo scrittore americano John Steinbeck quando dice, nel suo Viaggio con Charley (il suo cane), che «le persone non fanno i viaggi» ma «sono i viaggi che fanno le persone». Noi tutti siamo il risultato delle nostre esperienze, al punto che esistiamo solo “perché” le compiamo, e non c’è vera differenza tra la mèta finale e le soste intermedie.
Una delle mie fermate preferite, quella che più mi piace raccontare, vede protagonisti un diciannovenne, un professore di Fisica, un filosofo austriaco e il grande Galileo.
Amarcord
Era il 1991 e mi trovavo in un’aula del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa, allora in Piazza Dante, se ben ricordo. La stanza era gremita e gli studenti si accalcavano per accaparrarsi gli ultimi posti. Ero arrivato tardi, col treno da Livorno, e nel brusio generale, mentre cercavo gli altri miei compagni tra la folla, un uomo dai capelli bianchi e dagli spessi occhiali, vestito con un maglione di flanella grigia, raggiungeva svelto la cattedra con le sue bianche carte sotto il braccio. Ancora non sapevo che quella lezione mi avrebbe cambiato per sempre.
Il professore, un astronomo che aveva da poco superato i sessant’anni, parlò di una ricerca che insieme ad altri aveva svolto una decina d’anni prima sul Sidereus Nuncius di Galileo, il trattato con cui lo scienziato pisano, come un messaggero delle stelle, annunciò al mondo la scoperta dei satelliti di Giove.
Oh mio Dio, è pieno di stelle!
Nel 1609, puntando il cannocchiale nel cielo, Galileo vide le montagne e i crateri della luna e fece crollare una volta per tutte la filosofia aristotelica della incorruttibilità dei cieli. «Come in terra, così in cielo» diremmo noi oggi, invertendo quel verso della più nota preghiera della più nota tra le religioni, cacciando Dio dal firmamento (come lui aveva cacciato l’uomo dall’Eden) e obbligando i teologi a traslocare il Paradiso.
Continuando nelle sue osservazioni, Galileo vide anche la Via Lattea coi suoi ammassi di stelle e corpi celesti, e il sogno antropocentrico dell’uomo svanì nel nulla come una chimera. D’improvviso l’uomo non era più la creatura al centro del mondo e con così tante stelle intorno non aveva più senso chiedersi cosa fosse il centro dell’universo (o dove fosse, o chi fosse). Il fragile sgabello dal quale l’umanità si era sempre innalzata a superbo giudice del “tutto” finalmente vacillava, anche se si sarebbe dovuto aspettare ancora molto tempo prima che Darwin desse il colpo di grazia alla superbia del genere umano, chiarendo una volta per tutte la nostra più umile parentela col resto del regno animale.
La scoperta principale, cui è dedicata la maggior parte del Sidereus Nuncius, avvenne invece all’una di notte del 7 gennaio 1610, quando Galileo osservò per la prima volta Giove e i suoi satelliti, che poi chiamerà medicei in onore della famiglia de’ Medici. Secondo il costume del tempo, infatti, ogni scienziato omaggiava il proprio patrono facendone menzione nel frontespizio delle opere che pubblicava. Mettendosi sotto l’ala protettrice della potente famiglia fiorentina, forse Galileo intravedeva già la rivoluzione che le sue idee avrebbero suscitato e tentava di prevenire gli attacchi dei suoi detrattori, ponendosi (inutilmente) al riparo dalle peggiori conseguenze.
Crolla il mondo
L’11 dicembre 1610, nove mesi dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, Galileo invia a Giuliano de’ Medici una misteriosa frase in latino da recapitare a Keplero: «Haec immatura a me iam frustra legantur oy» (Questo è stato già tentato da me invano troppo presto). L’astronomo tedesco cerca inutilmente di anagrammare la frase e Galileo è costretto, dopo qualche tempo, a inviargli la soluzione: «Cynthia figuras aemulator mater amorum» (La madre degli amori [Venere] emula le forme di Cinzia [la Luna]).
Galileo scopre le fasi di Venere. Il pianeta, illuminato dal Sole, a seconda dei periodi appare in pieno, per metà o in forma di falce (crescente o decrescente), esattamente come la Luna. Questo può voler dire una cosa sola: Venere ruota intorno al Sole, su un orbita più interna a quella della Terra.
Copernico ha ragione, la validità del sistema eliocentrico è dimostrata e finalmente la Terra non è più al centro del mondo. Il “Fermati, o Sole!” di biblica memoria1 è dunque irragionevole e, come tenta disperatamente di argomentare Galileo, al massimo lo Spirito Santo vuole insegnarci «come si vadia al cielo, e non come vadia il Cielo»2.
Ma ogni tentativo di salvare capra e cavoli porta Galileo in una spirale sempre più avviluppante. La Chiesa insorge, il Sidereus Nuncius è messo all’Indice, il domenicano Lorini accusa e dileggia lo scienziato dal pulpito, il cardinal Bellarmino drizza le antenne e alla fine tutti i protagonisti si spostano a Roma, città dei martiri e dei santi, per un epilogo intriso di eresia e Inquisizione. L’abiura è già nell’aria.
C’era una volta un filosofo
Paul Feyerabend fu un filosofo austriaco che si occupò di epistemologia. Nel suo scritto Contro il metodo, del 1979, sostenne una teoria anarchica della conoscenza, secondo la quale la scienza non ha un valore oggettivo (non più del mito, ad esempio) e non ci sono regole metodologiche che siano sempre applicate dagli scienziati.
Secondo Feyerabend la validità del metodo scientifico è da ridimensionare, perché anche Galileo, nelle sue esperienze, avrebbe introdotto ingredienti metafisici e macchinazioni propagandistiche. Nella visione del filosofo, l’anarchismo è quindi da preferire perché, senza imporre regole, può facilitare l’attività degli scienziati.
Non è un edificio fragile
Il professore mostrò una pagina del Sidereus Nuncius. Disse che gli era venuto in mente un modo per confutare le idee di Feyerabend e dimostrare così, una volta per tutte, la validità del metodo scientifico di Galileo. Quel metodo che, nelle parole dello scienziato pisano, si riassume nel motto «sensate esperienze e certe dimostrazioni»3 e che oggi traduciamo usando parole come “ipotesi”, “teorie”, “esperimenti”, “verifiche”, “dati empirici” etc.
Mise un lucido sul proiettore e apparvero sullo schermo delle stelline, simili a piccoli asterischi. Il professore disse che lui e i suoi colleghi si erano andati a prendere una copia originale del trattato di Galileo e avevano misurato sulla carta le distanze relative tra Giove e i suoi satelliti. Poi, con l’aiuto dei computer a disposizione a quel tempo (era il 1980), avevano rimesso indietro l’orologio di quasi quattrocento anni e ricostruito il cielo al tempo di Galileo.
Quei corpi celesti erano proprio là dove Galileo li aveva visti in quella bellissima notte del 7 gennaio 1610, ciascuno nella posizione che doveva avere, a conferma che il matematico pisano non solo non aveva preso lucciole per lanterne, ma aveva anzi seguito un metodo scientifico rigoroso, eseguendo misurazioni genuine e tutte molto accurate.
Altro che teoria anarchia della scienza, dunque. Paul Feyerabend aveva torto!
Ovazione
Il professore parlò con trasporto. Invece del gesso sembrò impugnare la spada (o forse era il rasoio d’Occam?). L’onore di un uomo, la reputazione di una città e tre secoli di storia parvero pesare su di lui, tutto intento a ristabilire la verità. Il brusio iniziale si fece silenzio, uno di quei silenzi che fanno udire il pulsare del sangue nelle vene e nei timpani.
Al termine spense il proiettore, senza nemmeno guardare il suo pubblico. Squadrò ben bene le sue carte, le rimise sotto il braccio e se ne tornò da dov’era venuto, fra l’applauso dei presenti. Non scorderò mai la sua commozione, le lacrime trasparenti che intravidi dietro i suoi occhiali spessi e l’umiltà con la quale sembro dirci: «ho fatto solo quel che dovevo fare».
Salito anch’egli sulle spalle dei giganti – Galileo, Newton, Einstein – quella mattina ne era ridisceso per indicarci la via del rispetto e della gratitudine nei confronti di ciò che noi, ancora troppo giovani per capire, eravamo lì per studiare e ossequiare: la Scienza. Fu la migliore lezione che abbia mai ascoltato.
E accese una candela nella mia vita che tuttora arde.
Alberto Fanfani
P.S.: Questo articolo non ha alcuna pretesa di scientificità, esprime il pensiero dell’autore (ma non necessariamente quello della testata che ospita l’articolo) e ha il solo scopo di riportare a galla i momenti e le emozioni vissute da chi l’ha scritto. Per una trattazione divulgativa del lavoro scientifico citato, il lettore interessato può consultare l’indirizzo: http://www.lanaturadellecose.it/elio-fabri-48/scritti-vari-192/che-cosa-si-vedeva-con-l-occhiale-268.html
1 Gs 10, 12-14.
2 Dalla lettera Alla Granduchessa madre Cristina di Lorena, nella quale la citazione riportata è attribuita al cardinale Cesare Baronio.
3 Espressione usata più volte da Galileo nelle Lettere copernicane.
- Il bello del classico – Così parlò Zarathustra - 15 Febbraio 2016
- Il bello del classico – Se questo è un uomo - 14 Gennaio 2016
- La ricerca spirituale di T.S. Eliot - 15 Dicembre 2015