Il Bello del Classico: IT di S. King

Stephen King, la terribile dolcezza di un autore che guarda ancora al mondo con gli occhi di un bambino.

itScegliere un volume nella grande enciclopedia dei classici horror non è un gioco da ragazzi. Ma giochi e ragazzi sono spesso il fulcro delle storie che li animano. Ragazzi innocenti. Giochi inquietanti. E terribili conseguenze. Così è anche nel capolavoro kinghiano It, apologia dell’infanzia nel momento in cui essa si scontra con le turbe dell’adolescenza e gli orrori generati dalla società adulta, senza aver tuttavia perduto, ancora, lo sguardo fresco e poetico sulle vicende della vita.

Già. Perché It – uno dei tomi più lunghi e pesanti firmati dalla penna più celebre del Maine – è anche, come ogni horror che si rispetti, una sottile allegoria. Il nucleo tematico del libro è fra i più semplici: un gruppo di ragazzini, spesso esclusi dai loro coetanei a causa di piccole deficienze fisiche o insicurezze psicologiche, salda un intenso rapporto di amicizia, fondandolo proprio sulle basi di quelle debolezze, reciprocamente condivise e accettate. Insieme formano il Club dei perdenti. A dispetto del nome, questa amicizia diverrà un’arma formidabile per combattere la mostruosa creatura che abita i sotterranei della città in cui vivono.

Derry: i fan di Stephen King conoscono bene questa cittadina immaginaria della provincia americana, marginale sulle carte geografiche, ma centrale nella poetica dell’horror kinghiano. Fra tutte le opere di King è in It che troviamo la descrizione più accurata dell’abitato: esso diviene anzi così importante da suggerire che la vita stessa della città possa coincidere con la reale identità della cosa nascosta nel sistema fognario. Abituata a svegliarsi ogni trent’anni in preda a un appetito famelico, il suo pasto prediletto sono i bambini, dei quali It è abilissimo a incarnare le paure più intime: perché la paura è ciò che dona sapore ai suoi truculenti banchetti. Ma la sua influenza si estende a tutti gli abitanti, soprattutto adulti, spingendoli a volgere lo sguardo altrove, di fronte a fatti sconcertanti, o stimolandone i peggiori impulsi.

Il romanzo inizia con una situazione (tecnica usata con frequenza da King) e ci proietta subito nel gorgo dell’orrore. L’immagine di una barchetta di carta impermeabilizzata con la paraffina, beccheggiante in un rivolo d’acqua piovana, è divenuta ormai parte dell’immaginario collettivo. Quella barchetta introduce anche uno dei personaggi principali: Bill Denbrough, futuro scrittore. Affetto da balbuzie, Bill è il ragazzino più autorevole, quello con l’immaginazione più fervida, che passerà il resto della sua vita a scrivere romanzi horror (proprio come King) preparandosi, inconsapevolmente, allo scontro finale con il mostro che ha rovinato la sua infanzia strappando brutalmente la vita – insieme a un braccio – al fratellino George. È quest’ultimo a correre dietro alla barchetta che Bill ha impermeabilizzato. A un tratto la barca finisce in una grata fognaria ed ecco spuntare la faccia sorniona di un clown.

Stephen_KingA distanza di molti anni il rischio è sempre quello di abituarsi a grandi invenzioni. I vampiri sembrano essere sempre esistiti, ma c’è stato un momento in cui qualcuno ne ha concepito l’idea. E così è per It, il clown assassino che abita nelle fogne. Una trovate sconcertante. Forse addirittura buffa, nella sua ambiguità, e proprio per questo vincente. Si tratta, ovviamente, di una facciata: una sembianza che It usa per adescare le sue vittime più tenere. Una volta vicino alla preda It si trasforma di nuovo, modellando la sua forma in base alle angosce più riposte della vittima.

In questo modo Stephen King ci consegna un essere che riesce a contenere tutti gli archetipi dell’horror: la mummia, il licantropo, lo zombie (quest’ultimo rivisitato nelle sembianze di un barbone cencioso affetto da sifilide) e così via. La storia prosegue muovendosi più livelli temporali, rimbalzando dal passato al presente, da quei lontani anni ’50,  agli anni ’80, quando i protagonisti, ormai divenuti adulti – tutti uomini di successo – sono costretti a tornare a Derry per portare a compimento l’opera che si erano prefissi da bambini: uccidere It scagliandogli contro delle monete d’argento, rivestite di un potere magico, forse conferito loro dall’immaginazione stessa dei ragazzini.

Tratteggiata in questi termini la vicenda di It appare quasi banale. L’eterna lotta fra bene e male, il tentativo di eliminare il mostro, che coincide con il superamento dei fantasmi interiori. Ma in realtà il romanzo è un labirintico castello di storie che si intrecciano le une con le altre, la rappresentazione di un grande spettacolo – la vita di una città intera – sul palcoscenico dell’orrore. In It troviamo tutti i rudimenti della fiaba dell’orrore, ma anche il loro rinnovamento. E un elemento che spesso sembra fare a pugni con i racconti di paura: la dolcezza.

Non è possibile, nello sfogliare le pagine di It, evitare di affezionarsi alle debolezze di Richie Tozier, di Ben Hanscom, Eddie Kaspbrak, Stan Uris e Mike Hanlon, personaggi così nitidi e definiti che riassumerne qui le caratteristiche sembra davvero inutile. Sono piccole vite fragili che – meraviglioso paradosso – nella fragilità trovano l’alimento per sfuggire ai veri orrori della vita: un padre violento e possessivo, la scomparsa di un fratello, una madre soffocante, la discriminazione dovuta al colore della pelle o alla forma fisica, per non parlare della balbuzie. E’ questa una fragilità, come si è già detto, poetica, in grado di accordarsi agli elementi naturali: il freddo intenso di un inverno che gela l’acqua nei canali, la primavera piena di uccellini cinguettanti, l’immaginifica potenza di una tempesta, la canicola dell’estate. E così i paesaggi, che sono la scenografia di eventi luttuosi, certo, ma sempre contemplati con gli occhi di chi vede il mondo come qualcosa d’inedito e cangiante: bello, spaventoso, ancora pieno di magia.

FilippoFilippo Bernardeschi

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