Pochi libri hanno ricevuto in egual misura il titolo di Mattone del Secolo e di Capolavoro Mondiale come La Recherche di Marcel Proust. Universalmente riconosciuta come una delle opere capitali della letteratura occidentale, ugualmente detestata da schiere di studenti e lettori occasionali, l’enciclopedica ricerca del tempo perduto è ormai entrata nell’immaginario collettivo come sinonimo di rievocazione nostalgica, filosofica odissea al contrario e indigeribile malloppo.
Snodata in sette volumi, scritta nel corso di tredici anni, quest’opera monumentale (c’è chi l’ha definita “cattedrale”) altro non è che il magistrale recupero di un’intera vita a partire dall’infanzia, ricomposta attraverso lo scandaglio della scrittura memoriale.
Tuttavia qua non vogliamo parlare di memoria, e neppure di tempo. Bensì di appetito. Che non è il piacere (dubbio, in questo caso) del lettore; quanto l’appetito di conoscenza dello scrittore: la sua attitudine artistica, sublimata in uno stile che del ricordo sembra nutrirsi, celebrandone al contempo la sensualità, che di tale banchetto è il presupposto.
Non è un caso se La recherche prende avvio da un episodio dei sensi: Marcel rincasa, una sera d’inverno, e su invito della madre decide di farsi un the caldo accompagnato da una madeleine, un dolcetto “corto e paffuto” da intingere nella bevanda. Non appena ingerisce un cucchiaio frammisto a briciole, Proust vive l’esperienza che innescherà il desiderio della scrittura. Improvvisamente non si sente più «mediocre, contingente, mortale».
Qualcosa è accaduto. Qualcosa d’importante, connesso a un’esperienza gioiosa e profonda. È il suo passato, legato a una sensazione fisica. È il suo spirito che tenta di agganciarsi a qualcosa ormeggiato nelle profondità della psiche. Dopo molti sforzi, Proust ricorda: «Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Léonie mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di the o di tiglio…».
Combray è il luogo di campagna dove Marcel passava le vacanze da bambino. Un semplice sorso di the ha resuscitato un intero mondo. Non un avvenimento isolato, ma un cosmo interiore: la vita e il tempo di allora, con tutto il corredo emotivo e sensoriale registrato dal bambino che è stato, sono oramai in suo possesso. In quanto scrittore, Proust non deve far altro che mettersi all’opera per condensarli sulla carta. L’episodio delle madeleine è forse fra i più celebri della letteratura di sempre e in molti lo conosceranno già. La sua importanza non risiede solo nel fatto di aver isolato, in modo magistrale e forse per la prima volta in letteratura, un processo spontaneo del quale tutti noi abbiamo almeno una volta in vita fatto esperienza. L’episodio è fondamentale anche per la comprensione dell’intera opera (nella cui interezza, ammettiamolo, è pressoché illeggibile per complessità e lunghezza).
Tutto il libro, infatti, o meglio i sette libri dell’opera-monumento si nutrono di simili epifanie legate al gusto. Si ha la sensazione, leggendo Proust, di assistere a una penna che fagocita il passato. Copiose sono le descrizioni, e sensuali. La bellezza del paesaggio è qualcosa che si beve, non solo si celebra. È qualcosa che si tocca e si osserva, ma soprattutto si assaggia e si inala. D’altra parte, gusto e olfatto sono sensi direttamente collegati all’ippocampo, sede della memoria: inevitabile che rivestissero un ruolo di primo piano in un romanzo incentrato su di essa.
E così, le figure retoriche più riuscite sono quelle basate sul piacere dei sensi, che tendono a ridurre ogni cosa alla sua componente nutriva. Un esempio per tutti? La squisita descrizione dell’anticamera di Combray. Una di quelle pagine per le quali vale ancora la pena mettere il naso nel La Recherche, nonostate la sua conclamata pallosità. Qua persino il silenzio diventa «succulento» o «sostanzioso» e Proust vi si addentra con la consueta golosità, scoprendo un ambiente in cui il fuoco cuoce «come una pasta gli odori appetitosi di cui la stanza era tutta grumosa» e giunge a definire l’ambiente «un immenso calzone» nel quale anche i mobili si assaggiano, fino a invischiarsi «nell’odore indigesto e fruttato del copriletto a fiori».
Quest’ansia di fagocitare il passato non è altro che un circolo, e la circolarità si riflette nell’intera composizione: si parte da uno stimolo sensoriale, motore del ricordo, e da esso si approda ad altre rievocazioni, trasposte in prosa, sfornate dall’autore per essere gustate dal lettore, che chiuderà dunque il cerchio: forse con una certa pesantezza di stomaco, come si diceva, a causa dello spessore – fisico, concettuale e stilistico – del romanzo. Vale la pena tentare, comunque. Anche solo sbocconcellando in qua e là, giusto per farsi un’idea del sapore.
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