Il rosso è forza, è potenza e pienezza, è un colore per chi prende la vita a piene mani, è un colore per chi non si nasconde, è il colore alchemico della trasformazione, è la forza eruttiva della terra, i lapilli dei vulcani e le lingue del fuoco, è il colore del metallo riscaldato che muta forma e che diventa cosa nuova nella mani di artisti e alchimisti. E’ un colore per chi ha coraggio, protesta e vuole cambiare, colore da manifesti, da corteo e da rivoluzione, è un colore che parla, è un colore per chi non ha sonno. E’ il colore del corallo, nato dal sangue di Medusa decapitata da Perseo, e pietrificato al contatto con le acque, colmo di poteri apotropaici, è il colore dei rubini, antidoto alla tristezza e capaci di vincere ogni male, è il mantello di Cappuccetto Rosso e la mela di Biancaneve, è il colore delle fragole e ora è anche il colore degli aperitivi!
Il rosso chiama, a volte urla, vivifica ed esalta, fa venire voglia di uscire e vedere che cosa c’è fuori. Non è certo un colore introspettivo, è un colore per esternare la propria appartenenza, o la propria gioia o la propria rabbia. E’ uno dei tre colori primari, da cui nascono tutti gli altri, è il colore del cuore, dei tramonti struggenti e dell’amore universale inteso nel senso più alto del termine. E’ l’arco più ampio dell’arcobaleno, il primo colore che vede il neonato e quello che designava gli abiti di imperatori, condottieri e alti prelati.
Il rosso però è ambivalente, può essere profondamente tragico, il colore del sangue, che non è mai indifferente, è il colore della vita e della morte: si nasce nel sangue e spesso vi si muore. E’ il colore degli assassini, della guerra e del potere, della rabbia e della gelosia, della seduzione e del sacrificio. E’ il colore del peccato, della grande meretrice di Babilonia e delle antiche prostitute, che dovevano indossare un capo di colore rosso per poterle facilmente riconoscere, mentre rosse erano le lanterne accese davanti alle case di tolleranza. Rosso era il cappuccio del boia e rosso è l’Inferno, così come le vesti del diavolo, rosso è il cavallo della Violenza nell’Apocalisse e rossa è la Lussuria, ma rosso è anche il manto di Cristo e quello della Madonna.
Il rosso è quindi un colore dalla profonda dualità simbolica, tanto che i Protestanti lo misero al bando perché troppo legato all’iconografia delle celebrazioni della Chiesa Cattolica Romana, e vietarono agli uomini di portare vesti rosse. Così cambiò profondamente la percezione e la sensibilità coloristica nei territori dove si diffuse la Riforma, dove tutto da allora si incentrò su tavolozze colme di bruni, neri, bianchi e ocra, come se sui colori più accesi fosse stato steso un ombreggiante. Pensate alle differenze nei dipinti di due geni della pittura di quel periodo: Rubens e Rembrandt. Rubens, vissuto a lungo in Italia e avvezzo al Cattolicesimo, crea opere ricche di colore, in cui le morbide carni delle donne ritratte sono spesso avvolte in vesti dai toni sontuosi del rosso. Nelle opere di Rembrandt, invece, il Maestro con i bassi toni della sua tavolozza crea capolavori dove i bruni e i neri vibrano di una calda luce nascosta. Cattolicesimo e Riforma lottavano anche attraverso i colori, a Roma colori squillanti e sfavillio d’oro, tinte sobrie e tagli rigorosi nelle Fiandre!
Al giorno d’oggi sembriamo tutti riformati, vestiti di nero e grigio, quasi punitivi negli accostamenti. Sembra che ci sia timore del colore, provate a vestirvi di rosso e tutti vi noteranno, vestitevi di nero e farete parte di una triste massa in cui nessuno vi degnerà di uno sguardo: i Mille ebbero le camicie rosse, il nero l’ebbero le Beghine.
Nonostante sia sempre stato un colore difficile da ottenere, il Rosso ha sempre affascinato l’uomo, che sin dai primordi ha cercato di riprodurlo sia sulle stoffe che nell’arte: nel Paleolitico lo ritroviamo nelle grotte di Lascaux e in quelle di Altamira. Certo non è il rosso a cui siamo abituati oggi, è meno squillante (perché derivato dagli ossidi naturali del ferro e dell’ematite) ma è il primo esempio di rosso nell’arte. Nelle grotte, animali dai caldi colori dell’ocra rossa delineati da energici segni neri si rincorrono in quelle rappresentazioni che sono considerate la Cappella Sistina dell’arte rupestre.
Da allora gli uomini hanno cercato di ottenere questo colore con ogni mezzo, e di renderlo sempre più puro, intenso e permanente: se ne cercò il segreto nelle radici delle piante, nei molluschi, negli insetti, e il suo costo ben presto lo fece diventare un simbolo di ricchezza e potere. Solo i grandi della terra potevano permettersi di avere mantelli e abiti interamente di quel colore.
Ai tempi dei Fenici le coste del Mediterraneo erano piene di conchiglie del genere Murex, il Murex Brandaris, il cui mollusco ha la particolarità di avere una ghiandola molto piccola, che negli esemplari più vecchi raggiunge la dimensione di un pisello. Se la si apre, la ghiandola secerne una sostanza vischiosa biancastra, che alla luce muta il proprio colore, dapprima gialla, poi verde, poi viola per assumere infine uno splendido tono rossastro dalle sfumature violacee. Data l’esigua quantità di questa sostanza che si trova in ogni conchiglia, pensate a quante ne venivano sacrificate per creare una sola veste. Le stoffe venivano immerse in grandi contenitori con acqua e molluschi lasciati a marcire, poi le si esponevano all’aria e come per magia (in realtà semplicemente per una reazione chimica, ovviamente ignota all’epoca) la sostanza emessa dai molluschi si ossidava, rendendo le stoffe di quel colore unico denominato Porpora di Tiro, dal nome della città fenicia dove le stoffe venivano prodotte. Così fino al Medioevo la costa Fenicia fu importantissimo centro per la produzione di queste stoffe, che venivano poi diffuse in tutto il mondo allora conosciuto. Di porpora di Tiro erano le balze delle tuniche dei romani, i mantelli degli Imperatori, le mozzette dei Papi e i calzari dei cavalieri.
Alternative meno costose esistevano, ma nessuna aveva la brillantezza delle stoffe ottenute dal murex. Si potevano usare le radici della pianta tintoria detta Robbia, tipica dell’area del Mediterraneo, da cui si ricava il colore detto garanza o alizarina: usato anche per colorire la pelle, era soprattutto utilizzato dai miniaturisti mediovali, che mescolandolo con allume creavano sulle pergamene gli accesi colori di lacca rossa ideali per le raffinate miniature. Oppure si ricorreva alla cocciniglia, il Kermes Ilicis: il pigmento, ottenuto dall’essiccamento delle cocciniglie femmine, conteneva quale principio colorante l’acido carminio, che produce il tipico colore omonimo. Nelle pitture murarie si continuava a usare l’ocra rossa: un mirabile esempio di quest’uso si trova a Pompei, nella Villa dei Misteri, dove vivaci e realistiche raffigurazioni di un mistero dionisiaco si snodano come un grande racconto continuo su pareti dipinte di un colore rosso unico, che dalla scoperta della villa nel 1909 venne chiamato “Rosso Pompeiano”.
Per tutto il medioevo proseguì la ricerca di un rosso più stabile e brillante: per esaltare la Parola di Dio nei codici miniati il colore doveva essere puro, carico, pieno, quasi vibrante della luce divina che riluceva nel manto rosso delle Madonne come nelle ali rossastre dei cherubini.
Al tempo stesso il rosso era però anche il colore più ricercato con cui farsi ritrarre: rosse sono le vesti di Federico da Montefeltro duca di Urbino, ritratto da Piero della Francesca, con il copricapo geometrico che sembra esaltare l’incredibile profilo del Duca, frutto, pare di un incidente di guerra. Rosso è il turbante del magnifico Ritratto di uomo di Jan Va Eyck, più volte considerato un suo autoritratto: da sotto un complicatissimo intreccio di stoffa rossa l’effigiato ci osserva con aria acuta e penetrante, e sembra giudicarci, senza nessun sconto per le nostre presunte miserie. Per rasserenarci facciamoci allora avvolgere dallo sguardo e dal manto completamente rosso della Madonna del Roseto di Martin Schongauer, un vero trionfo di sfumature rosse di cui sembra di avvertire tutte le varie morbide consistenze. Così come sembra di sentire l’impalpabile consistenza dei velluti della mozzetta di Leone X ritratto da Raffaello, o la croccantezza della seta leggermente marezzata che veste il Cardinale don Fernando Nino de Guevara di El Greco, o la morbidezza del sontuosissimo manto che trasuda potere e che riveste Napoleone I sul trono imperiale di Jean-Auguste-Dominique Ingres.
La storia dell’arte è piena di opere magnifiche che offrono mirabili esempi di rosso, e sarebbe facile trascinarvi in un tourbillon infinito di rimandi pittorici, ma per finire vorrei parlare di due artisti più vicini a noi, che con il rosso hanno creato capolavori, resi possibili anche dai nuovi mezzi tecnici che nel Novecento hanno allargato chimicamente lo spettro dei colori esistenti. Il primo è Henry Matisse con il suo stupendo Lo Studio Rosso: sono rossi il pavimento, le pareti, i tavoli, la pendola, le sedie, tutto è rosso, e appoggiati in questo fuoco caldo Matisse riproduce alcuni dei suoi dipinti più famosi, al tempo stesso una citazione del suo genio e l’esplosione della forza di un colore.
L’altro è Mark Rothko, che ha fatto vibrare il rosso creando numerosissimi dipinti che ruotano intorno questo colore. Prima di lui c’era il colore, con lui c’è la vita nel colore, il colore è vivo. Cercate di ammirare i suoi quadri dal vero, e guardateli attentamente per qualche minuto senza pensare ad altro: dalla tela si innalzerà un canto di luce e colori che avvolgerà la vostra anima.
Dopo, il rosso non vi sarà mai più indifferente.
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