PISA – Il Trovatore di Giuseppe Verdi, uno dei titoli più attesi dell’odierno cartellone del Teatro Verdi, ha suscitato ampi e genuini consensi alla sua “prima” pisana del 10 novembre.
Il secondo appuntamento della Stagione Lirica del Verdi ha confermato la nuova linea decisamente improntata a un più alto standard qualitativo, tendenza già annunciata dalla donizettiana Pia de’ Tolomei e che il pubblico sembra apprezzare. Se per la Pia la strategia di fondo era l’avvicinare il pubblico a un titolo ormai sconosciuto ai più, per Il Trovatore se ne imponeva una più sottile e – presumibilmente – più rischiosa perché quando si ha a che fare con un titolo così celebre bisogna muoversi attraverso vie meno ovvie, meno battute.
Naturalmente non si vuole avere la presunzione di affermare che questa coproduzione racchiusa in seno a Pisa, Modena e Reggio Emilia abbia detto una parola nuova sul secondo pannello del trittico popolare, ma che con un linguaggio tanto semplice quanto curato ed efficace abbia in effetti mostrato l’opera in una luce diversa da quella usuale: più tetra, più crudele, senza gli orpelli dell’epoca che l’ha partorita, ma – come i raggi della luna in una gotica notte di tregenda – ingentilita qua e là da qualche raro momento patetico.
In questo senso svolge un ruolo di primo piano la regia di Stefano Vizioli unitamente alle scene e ai costumi di Alessandro Ciammarughi: lo stile asciutto e la tendenza a non sovraffollare il palcoscenico esaltano al massimo l’intensa drammaturgia di questo oscuro dramma spagnolo senza dare allo spettatore la possibilità di perdere l’orientamento, eppure senza rinunciare alla plasticità dell’insieme e al dinamismo scenico.
A questo proposito, è interessante notare come la regia proceda “per moto contrario” rispetto a regie più ordinarie: più che nei momenti in cui sono in scena i solisti, il dinamismo viene ricercato nelle scene d’assieme e nei cori, in modo estremamente accurato e preciso, dal gusto quasi cinematografico: ad esempio, nel celeberrimo coro Vedi le fosche notturne spoglie Vizioli propone allo spettatore non il canonico parallelepipedo umano ma una scena in continuo mutamento in cui mentre il coro canta si avvicendano ora capannelli di zingare, ora truci sgherri che conducono un prigioniero cui verrà impietosamente tagliata la gola, oppure nella stretta del Finale II la plasticità dell’assieme in cui prima si muovono i solisti (con il gustoso dettaglio di Ferrando trattenuto da due seguaci di Manrico e, non appena il Conte di Luna fa per avvicinarglisi uno di questi avvicina la spada alla gola di Ferrando) e solo alla fine, nelle aperte ostilità, si aggiungono le compagini del coro e dei figuranti.
Un effetto sfrutto sovente da Vizioli è il mostrare lo scatenarsi di un’azione giusto per una manciata di secondi, al momento della chiusura del sipario, e concentrare l’occhio del pubblico in quella stretta fessura, un po’ come se si stesse spiando dal buco della serratura (e da qui la sgradevole sensazione di voyeurismo), un taglio fontaniano nel tessuto del melodramma attraverso cui si scorgono visioni agghiaccianti, una su tutte lo stupro di Azucena.
Questa voluta (e solo apparente) semplicità registica consente di esaltare al meglio la potenza evocativa della musica di Verdi, mai così ardente come ne Il Trovatore: è grazie a questo se al pubblico è stata consegnata intatta la forza di momenti come la Scena e Duetto di Azucena e Manrico nell’Atto II o lo splendido momento del Miserere (una scena talmente sofisticata e complessa, in termini di livelli di lettura, che se l’avesse scritta Wagner ad oggi sarebbe oggetto di innumerevoli interpretazioni psico-filosofiche). Come già ricordato poc’anzi, la buona riuscita dell’allestimento si deve anche alle scene di Ciammarughi (imponenti ma non monumentali, sempre adeguate e mai eccessive o fastidiose) e ai suoi bellissimi costumi, gustosamente dettagliati e dall’aria un po’ zeffirelliana, sapientemente incorniciati dalle luci di Franco Marri.
Lo stesso amore per il dettaglio lo si può distintamente ritrovare anche nella direzione del M° Andera Battistoni, una delle più interessanti giovani bacchette del panorama musicale nazionale, che ha guidato l’ottima Orchestra dell’Opera Italiana: nulla viene dato per scontato, è evidente che l’opera è stata smontata pezzo per pezzo al fine di scoprire la sua struttura più recondita. Il suo continuo giocare con i colori, con ritenendi e accelerandi, ha conferito all’opera un sapore decisamente caratteristico (e, presumibilmente, molto vicino alle intenzioni di Verdi).
Questa continua ricerca del colore avviene anche nei cori; si prenda ad esempio il coro Squilli, echeggi la tromba guerriera: di solito il coro viene mandato in scena e lasciato poi a intonare un verso dietro l’altro in modo sempre più sguaiato, invece Battistoni si è preoccupato di approfondire in modo quasi maniacale l’intenzione con cui ogni parola debba essere pronunciata, naturalmente questo approccio va esteso a tutta l’opera. Sebbene appaia quasi scontato che un direttore d’orchestra debba agire in questo modo, va però notato che purtroppo non tutti lo fanno e trovare questo atteggiamento in un musicista tanto giovane è rincuorante.
In generale la direzione di Battistoni è stata energica, infiammata, forse a volte un po’ troppo ma è bello ascoltare finalmente un Verdi sanguigno e non abbandonato a se stesso; d’altro canto bisogna sottolineare come abbia saputo far convivere le varie anime che si agitano in quest’opera: quella gotica, quella prettamente romantica italiana, quella leggera, quella popolare, quella artistica, insomma il Trovatore di Battistoni non è l’opera raffazzonata cui ci ha abituati la peggiore tradizione operistica, ma è un’opera varia, cangiante, in cui non esiste solo l’aspetto popolaresco o quello del guerriero esagitato.
Questa mutevolezza insita ne Il Trovatore è stata resa in modo formidabile dal Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia, eccellente compagine che ha saputo dar voce ai ruggiti, alle inquietudini, ai presagi che popolano il capolavoro verdiano con una solida ma al contempo flessibile vocalità, davvero ammirevole per la duttilità con cui veniva adattata alle esigenze dell’opera.
Una simile solidità, indispensabile per sostenere l’illusione (fin troppo esile con gli occhi odierni), ha contraddistinto anche i comprimari Simone Di Giulio e Simona Di Capua, interpreti rispettivamente di Ruiz e Ines. Due ruoli esigui, si dirà, ma bisogna tener presente che in Verdi non esistono parti minori: ogni cantante deve essere come minimo perfetto per risultare credibile, altrimenti l’intera opera si accartoccerebbe su se stessa come un castello di cartapesta.
Entusiasmante la performance di Francesco Milanese, il cui timbro oscuro lo rende perfetto per il ruolo di Ferrando e sempre perfettamente individuabile, anche nelle scene d’assieme o quando rivaleggia col coro.
Sergio Bologna, qui nei panni dell’antagonista Conte di Luna, è stato assolutamente dignitoso, efficace nelle scene d’assieme (ad esempio il finale dell’Atto I) ma meno in quelle da solo.
Il tenore Leonardo Gramegna – interprete di Manrico, il trovatore eponimo – possiede un timbro straordinario, pieno e ricco, ma ha un po’ esagerato con il fattore eroismo: Il Trovatore non è solo un’opera di fuoco e guerra, il suo personaggio non è un guerriero ma un poeta. Un po’ incostante nell’intonazione (in certi punti del registro acuto, attorno al sol e al la, tendeva o a crescere o a calare), è stato comunque un Manrico interessante. Poi c’è stata la Pira. Chi scrive ignora chi abbia avuto la sciagurata idea di tagliare l’intervento di Leonora e tutta la parte che Manrico dovrebbe cantare mentre il coro prorompe con «All’armi! All’armi! Eccone presti a pugnar teco o teco a morir!», ma da un punto di vista scenico e musicale un’esecuzione così dozzinale ha cancellato tutto ciò che c’era stato di buono nell’Atto III. Cosa incomprensibile, peraltro, visto che comunque tutto il resto dell’opera è stato se non perfetto per lo meno eccellente e senza tagli di tale entità. Più che un taglio per necessità, si è trattato semplicemente di pigrizia.
Nel caso di questo Trovatore, se si dovesse stilare una classifica degli interpreti in base alla bravura dimostrata in scena, le prime due posizioni (in realtà un primo posto ex aequo) coinciderebbero esattamente con l’importanza attribuita da Verdi ai personaggi e cioè Azucena e Leonora, qui rispettivamente interpretate da Silvia Beltrami e Vittoria Yeo. A voler fare il critico petulante si potrebbe osservare forse un po’ di discontinuità fra i vari registri della Beltrami, ma questo appunto appare ridicolo se messo di fronte alla sua straordinaria presenza scenica: capace come pochi altri di evocare le tenebre e i demoni verdiani, rimarrà impressa nell’immaginazione di molti con lo straziante grido «il figlio mio!».
Alla Leonora della coreana Yeo, invece, si attaglia la definizione che qualcuno diede a Rosina Penco (la prima Leonora): «fata del canto, piena di slanci e drammaticità, passionale e patetica». La sua totale padronanza del canto fa sì che riesca a passare con nonchalance dalla sua cavatina spiccatamente rossiniana Tacea la notte placida alle tinte fosche di una delle più cupe opere mai partorite da Giuseppe Verdi.
Photocredit: copertina Alfredo Anceschi; interno Imaginarium Creative Studio.
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