Nel mese più corto dell’anno non si può non menzionare chi del “corto” ha fatto il suo punto di forza: la gonna. Simbolo incontrastato della femminilità, accompagna le gambe delle donne da secoli. Ma è quando inizia la sua “ritirata” che diventa rivoluzione.
Le gambe cominciano a vedere la luce del sole già negli anni venti, la storia racconta di come Coco Chanel abbia fatto della gonna al ginocchio e del jersey il suo marchio nel prêt à porter. I natali della nostra minigonna non erano però così lontani: nelle olimpiadi del 1928 si vede la prima “gonna corta” indossata dalla pattinatrice norvegese Sonja Henie.
Ma quando è che si può parlare realmente di “mini”? Al suono di questa parola molti penseranno alla famosissima berlina del ‘59! Niente di più appropriato. La stilista inglese Mary Quant, ispirandosi a quel modello automobilistico, lanciò nel 1963 la minigonna (mini-skirt), la paternità di questo indumento non è universalmente riconosciuta alla Quant, ma poco importa visto la rivoluzionaria divulgazione a partire proprio da quegli anni. La modella scelta per il suo lancio fu la famosa Lesley Hornby, al secolo Twiggy, ma nello stesso periodo la minigonna fu sulle pagine di molti giornali non solo per le belle gambe, ma anche per un episodio che vide protagonista un’altra modella inglese: Jean Shrimpton. Era il 30 ottobre del 1965 e faceva caldo, tanto che la giovane oltre ad osare una minigonna ben 10 cm sopra il ginocchio senza calze, non portò con sé né guanti e né capello. La modella si trovava lì per un evento promozionale all’ippodromo Flemington Racecourse di Melbourne. Subito i fotografi la presero d’assalto immortalandola in mezzo ad altre donne così da enfatizzare il distacco generazionale. Il caso divenne noto con il nome di The miniskirt affair.
Incredibile ma vero il rettangolo di stoffa, diventando piano piano sempre più corto, fu icona di cambiamento ma soprattutto di rottura con il passato. Il fenomeno, infatti, toccò tutti i paesi, il nostro compreso, e con lui anche i più grandi nomi della moda.
Proviamo ad immaginare il connubio tra l’architettura fiorentina di metà ‘400 e quanto fino adesso avete letto. Ebbene sì. All’interno di Palazzo Pitti, polo museale fiorentino, nella Galleria del Costume sono esposti abiti delle più disparate epoche storiche, tra questi la nostra amata “mini”. Il museo nasce nel 1983 dall’idea di Cristina Aschengreen Piacenti e Raffaello Torricelli. Incredibile e suggestivo come questi abiti si mescolino perfettamente alle opere d’arte “convenzionali” firmate Raffaello, Tiziano della Palatina, Fattori ecc.
La collezione è andata crescendo sempre più, oggi conta circa seimila pezzi, tra questi, molte eleganti “mini” datate 1960 e oltre.
Oggi, camminando per le strade non è difficile sentire gli echi di quella moda, ed è facile sorprendersi vedendo un abito di Valentino in crêpe di seta bianca con disegni corallo sul collo e sulle maniche datato 1969, che indosseresti ancora oggi.
La stessa sensazione si percepisce con il vestito etichettato “Forquet\ Roma” del 1968. L’abito è entrato nella collezione pittiana come donazione di Anna Bozza. Il capo è composto da due pezzi: un miniabito color avorio, privo di maniche e collo, dalla forma lineare e svasata, decorato con applicazione del motivo cachemire in crescendo di toni che si ripete sul cappotto nero, secondo elemento, lievemente più lungo del primo.
In occasione della mostra L’abito e il volto, Storie del Costume dal XVIII al XX secolo, lo stesso stilista partenopeo, ma di origine francese, definito il Dior italiano dalla scrittrice Irene Brin, in una lettera riconosce a quegli anni la vera rivoluzione, che cambiò tutto, anche la storia del costume. La lettera è importante proprio perché spiega l’unicità di questo museo fiorentino che è riuscito a musealizzare abiti che al tempo erano concepiti per il quotidiano, minigonne e miniabiti compresi. Pensare che un oggetto così vicino a noi sia oggi conservato in un museo, ci fa capire che l’arte è tutta intorno e vale la pena visitarla, oppure parafrasando Oscar Wilde: “o si è un ‘opera d’arte, o la si indossa”.
In questo caso, indossiamola.
Eleonora Greco
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