Ha scritto una madre: «Hai appena vent’anni, figlia mia, e sei rimasta cieca durante l’esplosione, ma ti farò dono dei miei occhi quando morrò». Poi, come se si fosse svegliata da un lungo sonno, ha proseguito: «Ti donerò i miei occhi, avevo promesso, ma occhi colpiti dalla bomba, mi hanno detto, non servono a nessuno».
PISA – “Il Lessico di Hiroshima”, presentato venerdì 8 aprile 2016 alla libreria Erasmus di piazza Felice Cavallotti di Pisa, è un piccolo volume emblematico sull’inferno atomico del 1945, così come lo è anche il suo autore, Paolo Miorandi. Alla presentazione hanno preso parte Urbano Tocci, che ha illustrato l’attività della sua associazione “La Rosa Bianca” di Pisa anteponendo un discorso sul tema della Memoria, tanto sentito da sortire la sua stessa commozione; Nicola Di Nardo, collaboratore della rivista culturale online TuttoMondo e studioso di Storia, che ha tentato di contestualizzare il volume aggiungendo un contributo emozionale poiché sostiene che la Storia, molto spesso, si riduce a stime sulle morti e cifre senza volti; infine Mary Ferri, presidente dell’associazione “Periphèria”, che ha condotto l’evento presentando, a intermittenza, i relatori e le varie associazioni, nonché la webzine TuttoMondo.
Paolo Miorandi, trentino, è uno psicoanalista e psicoterapeuta che si è occupato, per oltre vent’anni, di psicologia del lavoro. La sua fervente passione per il Giappone lo ha portato ben presto a visitare l’impero del Sol Levante, dove ha cercato di far proprie molte pratiche e tradizioni, tra le quali la calligrafia shodō con la quale arricchirà il Lessico di Hiroshima. Dedica alla scrittura buona parte del suo tempo, cimentandosi in veri piccoli capolavori, alcuni dei quali, come “Ospiti” (2010), “Nannetti” (2012) e “Verso il bianco” (2014), pubblicati per “Il Margine” editore. Il “Lessico di Hiroshima”, lanciato al Pisa Book Festival 2015, ha ottenuto un meritatissimo successo ed è stato poi impresso in tracce audio musicate da Roberto Conz e suonate al pianoforte da Marco Dalpane.
La bomba di Hiroshima, assieme alle camere a gas, è stato il più grande esperimento di industrializzazione della morte finora condotto sulla Terra. La morte inferta su scala industriale compie un estremo attentato contro la dignità della vita privando l’uomo persino della particolarità della propria morte e diluendo ogni singola morte in un grande indefinito oscuro male. È stato per riprendersi la propria morte che alcuni Hibakusha hanno scelto la via del suicidio.
A settant’anni dal bombardamento atomico sulle città di Hiroshima e Nagasaki sono ancora oggi accesi forti dibattiti riguardo la moralità del gesto, anche se universalmente riconosciuta è la tesi secondo la quale si sia trattato di un gesto estremamente vile nei confronti della dignità umana e ciò che questa vuole e deve rappresentare. La mattina del 6 agosto 1945 alle 08,15, ora di Tokyo, l’Enola Gay sganciava l’ordigno atomico denominato “The Little Boy”, mentre un altro velivolo testimoniava con l’ausilio di una macchina fotografica gli effetti della bomba; questo aereo veniva in seguito rinominato “The Necessary Evil”, il male necessario, come se alcun male potesse mai esserlo. Gli effetti della bomba furono devastanti. Quando questa detonò, a circa cinquecentottanta metri dal suolo, 90 mila persone furono cancellate all’istante e circa un venti per cento dei sopravvissuti morì nei giorni e mesi successivi. Tre giorni dopo l’arcipelago nipponico sofferse due colpi ulteriori e terrificanti dopo la sconfitta di Okinawa (150 mila morti giapponesi) e la bomba su Hiroshima: l’invasione da parte dell’Unione Sovietica la notte del 9 agosto 1945, che ruppe il patto di neutralità spaccando il fronte con un milione e mezzo di uomini; e la bomba atomica “Fat Man” su Nagasaki la mattina seguente, sganciata dal bombardiere denominato “Superfortress”. In due giorni furono spezzate 200 mila vite.
Due cose tornano con regolarità nelle testimonianze dei sopravvissuti. Che quella mattina del 6 agosto il sole splendeva e il cielo sopra Hiroshima era di un azzurro profondo e che ciò che videro dopo che quello stesso cielo era esploso e la terra si era oscurata supera ogni loro capacità di descrizione. Solo certe antiche rappresentazioni dell’inferno – dicono alcuni – possono vagamente rendere l’idea di come era diventato il mondo.
Il libro si articola in trenta parole di uso comune, alcune delle quali correntemente in uso come “Acqua”, “Occhi” o “Pioggia”. È particolare il modo in cui l’autore, seppure in un contesto talmente drammatico, riesce a utilizzare parole semplici pur tuttavia evocando significati estremamente complessi. Quando gli viene chiesto perché si è cimentato nella scrittura del suo libro, risponde che è «un tentativo per non abituarsi troppo alla guerra», così frequentemente ricorrente nell’attualità. «Sono andato in Giappone – riporta – per sentirmi in diritto di scrivere riguardo a Hiroshima, per avere una sorta di permesso. È vero che oggi si possono trovare numerosi documenti che approfondiscano l’argomento, ma vedere con i propri occhi è un’altra cosa». Il lettore è catapultato in quel fatidico giorno, si trova faccia a faccia con il dolore, si trova obbligato a domandarsi cosa avrebbe potuto fare per lenire le sofferenze di quei corpi martoriati; si trova ad Hiroshima, con il cuore e con la mente. «Gli hibakusha – continua – che significa letteralmente “esposti alla bomba”, non furono accettati dal governo Giapponese tant’era forte il desiderio di dimenticare, di lasciarsi alle spalle quei giorni drammatici. Poco tempo fa alcuni hibakusha hanno scelto un manipolo di ragazzini e hanno fatto loro imparare a memoria la propria testimonianza, cosicché questa si possa tramandare in futuro al di fuori di una fredda macchina digitale; lo trovo un gesto d’amore incondizionato nei confronti dell’umanità». Parla poi della Luce, Miorandi, parola importantissima nel “Lessico di Hiroshima”: «Era un ragazzino, Shimomura Osamu, quando il lampo abbagliò Nagasaki. I suoi occhi rimasero accecati da una luce che avrebbe reso il mondo un’unica impenetrabile ombra. Ma poi, crescendo, studiò chimica e farmaceutica e, sessantatré anni dopo la bomba, vinse il premio Nobel per le sue ricerche sulla bioluminescenza (la pallida luce verde emanata da certe specie marine). Questa è una coincidenza a dir poco straordinaria: una luce di odio gli ha tolto gli occhi, e una luce d’amore (perché quel segnale tra pesci elettrici è un segno d’amore), gli ha donato la rivalsa». Neanche dopo Hiroshima i giapponesi rinunciarono al loro rito di osservare lo sbocciare dei fiori di ciliegio. È un processo che dura una frazione di attimo, il momento dopo è già il passato. «I giapponesi sono un popolo forte – termina Miorandi – e hanno fatto di quella loro ferita un monito per l’umanità».
Nicola Di Nardo
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