Francesco Pugliese Tra l’asino e il cane
Tra l’asino e il cane, Conversazione sull’Italia che non c’è (edito da Rizzoli) è un ritratto realistico di un Italia che vuole e deve cambiare ma non riesce ancora a farlo. A gettare lo sguardo sul nostro Paese è una voce autorevole, quella di Francesco Pugliese, amministratore delegato del gruppo Conad, in un’intervista senza peli sulla lingua con il direttore del Foglio, Claudio Cerasa.
“L’uomo non è la somma di quello che ha ma la totalità di quello che non ha ancora: di quello che potrebbe avere”
Jean – Paul Sartre
Perché, descrivendo l’Italia si parla di asini e di cani? Perché, dice Pugliese, in apertura del libro, bisogna stare attenti a non fare la fine dei cani, o ancora peggio quella degli asini.
Perché l’Italia torni a viaggiare a passo rapido è infatti necessario che il sistema paese e i suoi leaders, che siano politici o imprenditori, stiano attenti a non circondarsi di cani fedeli. Per crescere bisogna creare fiducia e attorniarsi non di cani ubbidienti ma di collaboratori leali. Ma ancor più si deve evitare di fare la fine dell’Asino di Buridano, che, trovandosi tra due mucchi di fieno identici e a eguale distanza, non sapendo quale scegliere, resta fermo e muore di inedia. Ecco, l’Italia non deve essere l’asino di Buridano, correndo il rischio, per la paura di scegliere, di non scegliere affatto, condannandosi alla paralisi senza via di uscita.
Ma senza indugiare ulteriormente sul contenuto dell’intervista, lascio con piacere la parola alla voce di chi l’Italia la conosce bene e da vicino, l’AD Conad, Francesco Pugliese, che si è prestato con estrema disponibilità a rispondere alle nostre domande.
Da dove nasce l’idea di questo libro?
Nasce dalla consapevolezza di dare un contributo per provare a spezzare le catene della sinistra e della politica, ma anche del mondo imprenditoriale e dell’establishment italiani. Credo di conoscere bene il mio Paese, cosa e come gli italiani consumano, le loro passioni, i loro desideri. Credo di avere esperienza per dire cosa la classe dirigente deve fare da oggi in poi per riformare se stessa e cambiare l’Italia.
La sua è la voce qualificata di un manager di grande esperienza, oggi alla guida della più grande organizzazione cooperativa italiana di imprenditori indipendenti. Quale sono stati gli errori commessi dal sistema paese e quali le sfide che l’imprenditoria italiana dovrà affrontare per rilanciare l’economia?
L’Italia è malata di omologazione, di mancanza di semplificazione, di farraginosità e burocrazia imperanti. In più latita un’élite politica e culturale che sappia accompagnarla sulla strada dell’innovazione, della modernizzazione. Difficile se al contempo perdiamo – o svendiamo, come è il caso di Ansaldo – importanti pezzi del nostro patrimonio industriale: Lamborghini, Ducati, Italdesign… solo per fare qualche nome tra i più noti. Eccellenze produttive troppo piccole in settori dominati da colossi mondiali. Occorre uno Stato efficiente, che incentivi la libera concorrenza dei mercati e tassi in modo equo cittadini e imprese. Imprese che, da parte loro, devono riassaporare il gusto di crescere, svilupparsi e navigare le acque spesso tempestose dei mercati internazionali, avendo però dalla loro quella cultura del saper fare che identifica l’Italia in tutto il mondo.
Non voglio parlare di politica, ma leggendo il suo libro trapela con chiarezza l’immagine di un forte scollamento tra la politica e le sue scelte (o forse non scelte) e le esigenze del paese reale. Crede sia possibile ritrovare una comunanza di obiettivi e strategie di crescita e sviluppo?
Se la politica sta a debita distanza dalle imprese può funzionare al meglio; ma è vero anche in senso contrario, se le imprese si allontanano dalle logiche politiche hanno opportunità di ribadire come il prodotto italiano sia ineguagliabile al mondo. Perché in questa dicotomia, a fare da insensato collante c’è la burocrazia, utile solo a frenare lo sviluppo del Paese e delle imprese. La ricetta non può che essere una: investire nella specificità del prodotto made in Italy. Perché l’italianità è un valore aggiunto i cui benefici ricadono sull’intero Paese. Ci sono dei rischi, certo; ma sono gli stessi che hanno affrontato quegli imprenditori che hanno reso grande l’Italia del dopoguerra puntando sul lavoro, sulla voglia di fare un passo oltre il limite che si erano dati, sulla tenacia che è esempio e stimolo per altri imprenditori.
Tra l’asino e il cane è un ritratto realistico e amaro sullo stato del nostro Paese. L’Italia di cui abbiamo bisogno non c’è ancora. Sembriamo un Paese che ha voglia di correre a grande velocità ma che nei fatti non riesce a ingranare la marcia. Ma c’è davvero volontà da parte “dei poteri forti” di uscire da questo limbo?
Qualunque potere forte mira a tutelare… il proprio potere, a perpetuare posizioni che non vuole lasciare in eredità a persone magari più giovani, con vedute e capacità di fare differenti, con uno sguardo aperto sul mondo, sulle sue infinite opportunità e criticità. La politica è lontana dalla vita reale, quotidiana del Paese e le imprese hanno ricevuto in eredità l’incapacità di muoversi con i propri passi, di vivere se non di sussidi statali. Al punto di avere dimenticato che le proprie potenzialità produttive sono rivolte per l’80 per cento al mercato interno. Lo stimolo a cambiare deve venire anche da chi ha responsabilità nel sistema economico e sociale del Paese, mettendosi in gioco, facendo sentire la propria voce, condividendo idee e competenze con chi può decidere. Fattori quali il basso prezzo del greggio e una maggiore facilità ad accedere al credito bancario, uniti al cambio favorevole dell’euro rispetto al dollaro americano, sono importanti per agganciare con più forza la ripresa economica. Purtroppo all’Italia mancano un piano economico e una più bassa pressione fiscale che potrebbero aiutare le imprese a ripartire, creando, al contempo, nuova occupazione.
La fotografia dei consumi degli italiani ci racconta meglio di qualsiasi altra indagine i cambiamenti subiti dal nostro Paese negli anni della crisi. Gli italiani cercano di risparmiare e oggi l’home-made è la scelta di molti. Al di là della crisi economica, crede ci siano altre ragioni che stanno modificando le richieste di mercato dei consumatori italiani?
Il consumatore ha maturato una nuova identità, si è dato un nuovo modo di spendere, di investire e risparmiare – quando possibile – avendo sempre meno fiducia nelle istituzioni, divenute il simbolo di imposizioni le più varie, finendo con il preoccuparsi sempre meno sia di asini sia di cani. Quello della crisi economica è un tema che riporta sempre meno al consumatore dei nostri giorni. Entra in ballo ciò che definirei l’ottimizzazione dei consumi: chi fa la spesa è più attento e riflessivo rispetto ad un passato anche recente, se può risparmiare – riducendo anche gli sprechi – lo fa. Su tutto. Compresi i prodotti alimentari, siano essi freschi, freschissimi o confezionati. Acquista meno rispetto al passato, ma mangia meglio. Se la moderna distribuzione non comprende e non si adatta a questa nuova realtà abdica alla propria funzione, che è anche di stimolo e dialogo con altre forze della società, politica compresa.
Il made in Italy è un marchio di garanzia, non facciamo altro che ripeterlo. Ma dal suo libro appare chiaro che non abbiamo ancora capito come sfruttare a nostro favore l’italianità. Non sappiamo fare impresa e gioco di squadra, soffriamo della sindrome del nanismo e pensiamo che piccolo sia bello e buono. Ma si diventa competitivi sono se si è grandi. Come è possibile coniugare qualità e grandi numeri, ad esempio nel suo settore? Crede che il gruppo Conad in questo sia un modello vincente?
L’Italia vista con gli occhi di un cittadino è un modello ormai vecchio, logoro. Un modello che allontana dai politici perché non appaiono in grado di comprendere le reali esigenze dei cittadini e, anzi, li tiene lontani con la complessità di un apparato burocratico che non ha eguali al mondo. Chi comanda sempre più spesso rappresenta solo se stesso, meno che meno le istanze di quanti si danno da fare per tenere a galla il Paese. La moderna distribuzione, diversamente dal passato, non induce più la domanda rispondendo a bisogni inespressi del consumatore. Ora è il consumatore a dire cosa vuole e pretenderlo: al primo posto c’è la qualità di ciò che porta in tavola e un buon rapporto con il prezzo che paga. E’ una richiesta che solo la grande distribuzione può assecondare con professionalità e competenze. Meglio se con un valido modello imprenditoriale. Il modello imprenditoriale cooperativo a cui ci ispiriamo a differenza di altri, pone la persona al centro dell’agire e ha una base fatta di valori condivisi e applicati nel quotidiano. Il fatto stesso di “sentire” la cooperativa come parte di sé, sulla quale investire il presente e il futuro, fa sì che gli utili siano destinati a sostenere lo sviluppo, creare occupazione, far crescere nuove competenze professionali. Un modello imprenditoriale virtuoso per l’economia e la comunità.
Moda e cibo sono due fiori all’occhiello che rendono il nostro paese famoso in tutto il mondo. Ma se il settore della moda ha saputo innovarsi e tornare a crescere, non possiamo dire lo stesso dell’agroalimentare. Eppure abbiamo tutte le carte in regola. Che cosa stiamo sbagliando? Ma soprattutto crede che cibo e alimentazione possano divenire modelli guida nel rilancio economico del Paese?
Il made in Italy alimentare ci è invidiato da tutto il mondo. Al punto che all’estero l’italian sounding – vale a dire l’utilizzo illecito della forza evocativa dell’italianità – è talmente forte da avere alimentato fenomeni di agropirateria che pesano sull’economia del Paese per oltre 60 miliardi di euro all’anno. Basti dire che all’estero i falsi prodotti italiani fatturano quasi il doppio di quelli autentici e due prodotti su tre sono il risultato dell’agropirateria internazionale. Sbagliamo nell’aver lasciato spazio ad una complessità e pluralità di enti deputati alla promozione del made in Italy sui mercati internazionali… con il risultato che ho appena detto. Senza dimenticare la frammentazione della nostra offerta commerciale. Laddove i produttori si sono consorziati – valga, per tutti, l’esempio di Melinda, che raccoglie 16 cooperative con oltre quattromila soci frutticoltori –, l’organizzazione e la gestione di tutte le attività successive alla raccolta ne hanno tratto indubbi vantaggi, soprattutto all’estero.
Maggio è stato il mese di apertura dell’Expo di Milano dedicato all’alimentazione e alla nutrizione. Un appuntamento importante, intorno al quale, ancor prima di iniziare, sono sorte molte polemiche. Cosa ne pensa? Cosa si aspetta dall’Expo?
Expo è sinonimo di eccellenza italiana, un’eccellenza che dovremo saper vendere bene garantendo anche la qualità e il fascino dei prodotti autenticamente italiani, perché simbolo di tradizione, saper fare e tipicità. E’ un’occasione per valorizzare il made in Italy in un momento in cui, a livello comunitario, assistiamo a spinte che vanno in direzione opposta. E’ il caso della richiesta di abolizione del divieto di utilizzare latte in polvere per la preparazione dei formaggi tipici italiani o dell’assurda, incomprensibile richiesta di omettere l’indicazione della sede dello stabilimento di produzione. Stiamo predisponendo un articolato di legge da sottoporre alla Corte di Cassazione finalizzato ad ottenere l’autorizzazione alla raccolta di firme per il ripristino dell’obbligatorietà dell’indicazione dello stabilimento di produzione sull’etichetta dei prodotti alimentari al fine di salvaguardare l’eccellenza delle produzioni tipicamente italiane e per garantire ai consumatori una corretta informazione. La mancanza dell’indicazione dello stabilimento del prodotto comporta il rischio che l’eccellenza agroalimentare regionale italiana sia delocalizzata e il made in Italy perda valore, dando ancor più spazio all’agropirateria internazionale.Un contesto come quello dell’Expo è ideale per lanciare questa nostra iniziativa, che auspichiamo sarà apprezzata da tanti visitatori. Ci auguriamo, tuttavia, che oltre ai cittadini siano sensibilizzati a questo tema anche i parlamentari e che facciano seguire un altrettanto convinto impegno per porre rimedio ad un normativa davvero assurda e incomprensibile.
Mi piacerebbe salutarla con un suo augurio per il nostro Paese.
E’ un invito che rivolgo ai giovani, perché il nuovo Rinascimento non può che averli come protagonisti. Auguro loro che abbiano uno sguardo costantemente aperto sul mondo, che sappiano fare squadra, che siano leali – e per nulla fedeli – e portino sempre il loro contributo di idee. Devono imparare ad avere fame di successo e a cogliere ogni opportunità che il mercato fornisce loro. Magari avendo come interlocutore uno Stato che si muove con pochissima burocrazia ma tanto buon senso.
Biancamaria Majorana
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