1977, break the rules! Intervista al critico musicale Vittore Baroni

Vittore Baroni (Forte dei Marmi, 1956) è un critico musicale (Rockerilla, Rumore, Blow Up, ecc.) ed esploratore delle controculture. Dalla metà dei Settanta è inoltre uno dei più attivi operatori nel circuito planetario della mail art. Ha scritto o curato svariati libri sulla musica contemporanea e su aspetti delle “culture di rete” che hanno anticipato Internet. Ha organizzato numerose esposizioni, eventi, pubblicazioni e progetti collettivi nell’ambito della mail art, dell’audio art, della poesia visiva, del fumetto e dell’arte di strada. È stato co-ideatore di seminali progetti di “networking” quali il sistema modulare TRAX, i nomi multipli Lieutenant Murnau e Luther Blissett, i progetti Stickerman e F.U.N. (Nazioni Unite Fantastiche). Dai primi anni ’90 è parte del gruppo musicale Le Forbici di Manitù, con cui ha pubblicato una dozzina di album per etichette internazionali.

1977

Vittore Baroni (per g.c)


Tuttomondo
ha scambiato una corrispondenza mail con Vittore per farsi raccontare come era vivere la  musica, la cultura e la società in un’area tra Pisa, e la Versilia nel 1977, passando attraverso il punk, la musica leggera, la new wave, le politiche estreme e l’arte sperimentale in tutte le sue forme. Un tuffo tra memorie personali, aneddoti e cronaca artistica del tempo, dove le controculture erano ancora vive, frementi e sentite.

In Italia e in particolare a Pisa e dintorni cosa stava succedendo in quel periodo nella scena musicale? Come si viveva la musica in quel periodo?

«All’epoca abitavo a Forte dei Marmi, dove sono nato, e con Pisa a dire il vero avevo contatti molto saltuari. La Versilia ha sempre avuto una tradizione legata alla musica leggera e da intrattenimento (Adelmo Zucchero Fornaciari, alle medie, era nella classe accanto alla mia) piuttosto che al punk o alla sperimentazione sonora, quindi vivevo chiuso nella “bolla” della mia cameretta, intrattenendo relazioni non tanto coi pochi musicisti locali quanto (via posta) con musicisti e artisti di tutto il mondo, grazie alle mie attività di giornalista-fanzinaro (ho iniziato nel 1972, ai tempi del liceo, sugli ultimi fogli hippie-alternativi) e soprattutto di “artista postale” (ho scoperto il mondo della mail art proprio nel ’76.’77, quando iniziavo a frequentare il DAMS di Bologna). Era una situazione un po’ schizofrenica, la “normalità” della vita quotidiana come studente universitario e operatore turistico, sovvertita nel tempo libero dagli ascolti delle musiche più bizzarre e dalla lettura di “parole ribelli” su pubblicazioni ricevute per posta da paesi e culture diverse. Accadeva poi che molti di questi musicisti e artisti conosciuti per corrispondenza passassero a trovarmi, mia madre era sempre pronta ad aggiungere qualche piatto alla tavola, non si stupiva neppure più se a suonare il campanello era un giapponese, un australiano o un gruppo di affamati punk tedeschi».

Parlando invece di Punk: questo movimento oltremanica era giunto al suo esaurimento ma in Italia è arrivato dopo. Come è stato recepito questo movimento nel 1977 tra Pisa e dintorni?

«Io abitavo in Versilia e forse a Pisa l’impatto del punk è stato più forte e percepibile rispetto alla sonnolenta “Costa Ovest”, dove nessuno dei miei amici aveva la più pallida idea di chi fossero Mark Perry o Malcolm McLaren. Per chi teneva un minimo le antenne alzate e leggeva i mensili musicali, o anche solo seguiva già dal ’76 i mitici collegamenti da Londra di Michel Pergolani nel programma tv di Renzo Arbore L’altra Domenica, il punk però in realtà è arrivato anche da noi “in tempo reale”. Carlo Basile, dirigente illuminato della RCA, fece addirittura uscire al tempo una serie di compilation economiche punk/new wave, costavano mi pare 3500 lire, che aiutarono parecchio a diffondere anche da noi nuovi suoni e nomi. Non era difficile poi, per chi era davvero interessato, mantenersi aggiornati sulle ultime novità discografiche servendosi dei canali di importazione e dei negozi specializzati. Casomai, bisogna dire che nei primi tempi, soprattutto a causa di vari equivoci fomentati da molta stampa (anche quella della sinistra più miope e ortodossa), il punk è stato visto in Italia come politicamente destrorso e “sospetto”, sono occorsi svariati anni per sradicare certe prevenzioni».

Gli anni intorno al 1977, culturalmente parlando, erano anni di grande disillusione e difficoltà, gli anni di piombo, misti a una forte componente di riscatto e rivoluzione. La musica indubbiamente portava forti messaggi politici. Quali erano le principali questioni affrontate nella scena musicale?

«Il 1977 ha decretato una svolta rispetto agli anni di piombo per quanto riguarda le aggregazioni artistico-musicali e le politiche giovanili. Dopo tanto impegno serioso, contraddistinto dal successo della figura del cantautore, è stata la breve stagione degli Indiani Metropolitani, in cui la cosiddetta “ala creativa” del Movimento, sull’onda lunga delle esperienze del ’68, ha prodotto una gran quantità di eventi, riviste (Wow, A/Traverso, ecc.) e azioni pubbliche dimostrative, fortemente satiriche e parodistiche, strettamente collegate col movimento studentesco e con la scena culturale e musicale (basti pensare a Radio Alice e ai gruppi ed etichette discografiche di Bologna). Le questioni sociali e anche le contraddizioni del “privato” venivano affrontate con una carica satirica e (auto)ironica inedita, surreale e grottesca, il cosiddetto “rock demenziale” formalizzato dagli Skiantos e che è stato forse il contributo più originale dato dall’Italia al fenomeno punk/new wave. Nel gennaio 1997 ovvero nel ventennale del 1977, per le AAA Edizioni che all’epoca dirigevo assieme a Piermario Ciani, abbiamo pubblicato il saggio di Claudia Salaris, Il movimento del settantasette, rapidamente andato esaurito e ristampato, che proprio analizzava il carattere interdisciplinare della rivolta creativa di “indiani metropolitani, trasversalisti, maodadaisti, parodisti e cani sciolti”. Ora sono passati altri vent’anni e certamente usciranno altri volumi a commemorare la ricorrenza, ma ho un po’ l’impressione che i giovani di oggi non siamo più molto interessati a conoscere, metabolizzare e mettere in pratica la storia delle “controculture”. Le “parole ribelli” di quegli anni sono sempre più decontestualizzate, sono divenute qualcosa di molto distante dalla nostra esperienza quotidiana, un po’ come vecchie riviste dada conservate sotto teche di vetro nei musei».

Parlando di cultura e società: riuscirebbe a raccontarmi quali erano gli umori dei giovani in quel periodo? Sulla politica in particolare cosa stava cambiando a livello sociale?

«C’era, rispetto ad oggi, molta più polarizzazione attorno alle diverse ideologie politiche e, di conseguenza, una differenza molto spiccata nei comportamenti, modi di vestire e pensare, di chi apparteneva a gruppi politici e orientamenti differenti. A parte le intuibili differenze tra destra e sinistra ortodossa, c’erano le numerose e non meno pronunciate differenze fra le diverse formazioni dell’estrema sinistra, oltre ad un certo numero di persone che si tenevano a distanza dalla militanza politica spesso bollati come “qualunquisti”, e vari outsider e “non allineati”, dai pacifisti non violenti di ispirazione beat-hippie alle nuove tendenze (anarco)punk, dark, industrial, ecc. Non mancavano in gran numero anche i conformisti dell’anticonformismo, i punk della domenica, quanti di questa rivolta avevano assunto soltanto i tratti più esteriori (spille e capelli a cresta), pronti a cambiare divisa all’apparire di una nuova revolt into style. Il tempo è galantuomo, e per capire chi davvero c’era e chi lo faceva soltanto basta guardare che fine hanno fatto oggi, quarant’anni dopo, quanti erano alla testa di gruppi e riviste punk: qualcuno (come Helena Velena, un tempo Giampy della Attack Punk records) è ancora impegnato in battaglie di prima linea sulla percezione della diversità, ma molti (non facciamo nomi) sono passati dall’altra parte della barricata, yuppie in carriera, candidati nelle fila della Lega o peggio».

Quali erano le vostre figure di riferimento nella musica tra il 1977 e oltre, e quali ideali di cambiamento volevano comunicare?

«Tutti i musicisti del rock e dintorni assunti nel pantheon della musica popolare, dai Doors a Bruce Springsteen, dai Joy Division ai Sex Pistols, dai Velvet Underground ai Cure, avevano anche in Italia fazioni più o meno nutrite di appassionati e seguaci, che trovavano nelle loro musiche anche i più diversi input di tipo esistenziale, recepiti più o meno in profondità. C’erano diverse tribù e sottoculture tra loro in vario modo collegate. Ad esempio, per me il genere di riferimento nel 1976 – 1977 non è stato il punk di Clash, Sex Pistols e soci ma piuttosto il rumorismo “industriale” di Throbbing Gristle, SPK, Nurse With Wound, che si collocava in posizione ancor più trasgressiva ed estremista rispetto al “fuck” in diretta tv di Johnny Rotten. I legami più diretti che ho avuto con Pisa-Livorno sono stati gli scambi di materiali con chi come me produceva fanzine legate alle culture dark-industrial, ovvero riviste come “Trance” e “Idola Tribus”, interessate anche a temi come l’esoterismo e la performance art, ma queste sono già esperienze dei primi anni ’80».

Rispetto ad oggi come vivevano la musica i giovani del 1977 secondo lei? 

«La vivevano forse meglio, ma semplicemente perché la musica era in una fase più originale e innovativa, carica anche di valenze extra-musicali. Ogni giorno scoprivi nuovi gruppi con sound e idee totalmente mai udite prima, ancora non si era entrati nel gioco di specchi del post-moderno, nel continuo riciclo di stilemi del passato. Oggi si produce molta più musica di una volta, in parte sicuramente ottima, ma proprio la grande quantità e l’estrema accessibilità delle proposte (grazie al download e scambio in rete) hanno portato ad un generale livellamento qualitativo, ad una perdita di valenze e di “centri di gravità” capaci di veicolare idee anche socialmente innovative. Il successo dei talent show è la cartina al tornasole del trionfo di un’aurea mediocrità, dove la gradevolezza di esecuzione, l’ossequio ai canoni codificati, ha la meglio su qualsiasi spinta innovativa. Dispiace dirlo ma, così come tutti sono stati risucchiati nei social a giocare il gioco stabilito dal Mark Zuckerberg di turno, convinti di stare vivendo in quel momento la propria vita, nessuno più neppure sogna di scardinare le regole del gioco. Io non posseggo e non uso uno smart phone, e trovo interessante vivere da alieno a testa alta in un mondo pieno di persone a capo chino che battono ossessivamente il dito su una tavoletta di vetro e metallo. Suvvia, c’è un universo pieno di njsdgflkjasdthgkwhòqw-ejgsdlrkahòt-e là fuori!»

Quali erano i locali di punta di Pisa e dintorni in cui la musica veniva proposta e riscoperta? Che atmosfera si respirava in questo contesto?

«Sapevo delle imprese del Granducato Hardcore e del Macchia Nera (ho anche assistito un paio di volte ad esibizioni dei Cheeta Chrome MF), ma raramente mi spingevo a Pisa per seguire concerti e in Versilia per il rock era terra bruciata. Dagli anni d’oro del Progressive rock – al Piper 2000 di Viareggio sono passati un po’ tutti nella prima metà dei ’70, dai Genesis agli Amon Duul II, da Rory Gallagher ai Patto – si è balzati direttamente nell’era della disco music più becera, e molti non si sono più mossi da lì. I pochi appassionati di punk e new wave in Versilia suonavano chiusi nelle loro cantine o migravano verso altri lidi. L’atmosfera sulla costa era dunque quella di una grande “normalizzazione”, niente si percepiva all’esterno di quello che stava avvenendo nei sotterranei musicali del pianeta. E’ per questo che, per trovare collaboratori alle mie fanzine e per diffondere i miei progetti sonori (Lt. Murnau, TRAX, ecc.) ho intessuto contatti lontano dalla mia zona, finendo con collaborare con il Great Complotto di Pordenone, con la Materiali Sonori di San Giovanni Valdarno, con fanzine ed esperienze sparse per la penisola (Snowdonia, Vinile, Urlo, Free, Amen, sarebbe una lista lunghissima)».

Virginia Villo Monteverdi
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