Intervista a Lorenzo Maria Mucci: «Il regista deve mettersi al servizio della musica»

PISA – Come ha spiegato il M° Stefano Vizioli durante la presentazione dell’opera, Il cappello di paglia di Firenze è un titolo fortemente legato a Pisa in quanto è stato proprio il titolo di debutto dell’LTL Opera Studio nel 2001. La rappresentazione – sabato 11 domenica 12 febbraio – riporterà quindi la strepitosa opera di Nino Rota sulle tavole del Teatro Verdi dopo sedici anni, per poi esportarla al Teatro Goldoni di Livorno (17 e 19 febbraio) e al Teatro del Giglio di Lucca (4 e 5 marzo). Data l’importanza dell’evento nella sfera culturale di Pisa in generale e in quella del Teatro Verdi e dell’LTL Opera Studio in particolare, noi di TuttoMondo abbiamo intervistato il regista Lorenzo Maria Mucci per avere qualche anticipazione sullo spettacolo e per approfondire la sua figura, ormai indissolubilmente legata al Teatro Verdi

In una precedente intervista – sempre a cura di TuttoMondo – è stato sottolineato che, pur avendo alle spalle una solida carriera come regista di prosa, solo da alcuni anni si dedica anche a regie operistiche. Tuttavia, in questi “pochi” anni ha affrontato molti e diversi scenari lirici: dal dramma di Simon Boccanegra all’atmosfera brillante e grottesca di Gianni Schicchi, gli accenti tragici di Sancta Susanna, fino addirittura all’opera horror Il cuore rivelatore di Bruno Coli. C’è un genere o un titolo cui si sente particolarmente legato?
«Credo che un regista ami sempre, più d’ogni altro, lo spettacolo che sta per fare; almeno per me funziona così, mi innamoro delle cose che sto facendo e che magari non conosco: ad esempio Sancta Susanna è un’opera sconosciuta ai più che inizialmente anch’io non conoscevo, allora ho cominciato a studiarla da zero, ma poi me ne sono totalmente innamorato, così come mi sono innamorato di questo Cappello di paglia di Firenze e come mi innamorerò poi della prossima. Quindi, in definitiva, tutti questi titoli rimangono nella mia anima: il grande dramma del Simon Boccanegra per me è stato molto potente, così come lavorare sulla musica di Puccini è stato bellissimo. Anche per la mia storia personale, il teatro, il costruire qualcosa in palcoscenico è quello che mi porta a innamorarmi di quello che sto facendo».

Qual è quindi il compito del buon regista d’opera?
«Innanzitutto è mettersi al servizio della musica, anche a costo di essere tacciato di non originalità o di non artisticità. A volte si esagera, nel senso che la visione del regista prevarica quella musicale, ma così anche nella prosa: se metto in scena Shakespeare, mi metto al servizio di Shakespeare, dopodiché la visione che ne viene fuori è una visione certamente personale ma che deve stare dentro quella musica e dentro quella visione del compositore».

Nei giorni scorsi è stata annunciata la possibilità di assistere alle prove aperte del Teatro Verdi e il primo titolo coinvolto è proprio il Cappello di paglia di Firenze. Quale funzione individua del teatro rispetto al pubblico?
«Per me il teatro ha una funzione sociale, politica e didattica. Ai tempi di Shakespeare il teatro era pericoloso, gli attori venivano messi in prigione e le compagnie pensavano di poter ribaltare un governo soltanto mettendo in scena uno spettacolo perché lo spettacolo poteva avere la capacità di far sollevare il popolo, per me il teatro dovrebbe ancora avere questo potere. Questo non vuol dire che il teatro non sia anche intrattenimento perché si possono fare entrambe le cose contemporaneamente: assistere a un’opera di Shakespeare è un grande godimento ma i contenuti ci sono, così come Simon Boccanegra in cui abbiamo questa bellissima musica ma i contenuti politici sono presenti e anche molto forti e Verdi ne era totalmente consapevole, peraltro».

Venendo al tanto atteso Cappello di paglia, è lecito dire che si tratta di un’opera poco rappresentata. È più difficile approcciarsi al grande titolo o a quello meno noto?
«Col grande titolo si ha sempre la pressione di dover essere diverso da tutto quello che c’è stato abbondantemente prima. L’opera si può fare velocemente utilizzando scene già realizzate prima, ma per chi come me cerca un pensiero all’interno della regia questo non si può fare: la scena ha una funzione drammaturgica e quindi c’è nel grande titolo la pressione di trovare quell’idea in più. Con il titolo meno noto da questo punto di vista il regista è più libero, ma la difficoltà è proprio il non avere nessuna scuola dietro, non hai appoggi, quindi si incontrano difficoltà di tipo diverso. Poi dipende anche da come si affrontano le cose: prendere sottogamba il Cappello di paglia di Firenze non sarebbe giusto nei confronti dell’opera, di Nino Rota e dei ragazzi che ci stanno lavorando e non sarebbe giusto nei confronti del Teatro perché farlo bene non è sicuramente facile, spero di riuscirci!».

Le sue regie sono note per la loro scrupolosa aderenza al testo musicale (dato che lo abbiamo citato spesso, penso al Simon Boccanegra, in cui ha puntigliosamente rispettato le indicazioni “registiche” di Verdi).
«Quello è un gioco che mi sono posto: seguire le indicazioni anche in un contesto teatrale diverso, anche con un punto di vista tecnologico diverso. Però se Verdi scrive “questo punto della partitura è il mare che luccica”, lì ci dev’essere il mare che luccica, perché è la musica che comanda; poi magari viene realizzato in modo diverso, anche più astratto. Nel caso del Simon Boccanegra, ad esempio, c’era un fondale particolare che permetteva di fare dei giochi che di certo Verdi non poteva immaginare. Con Puccini è ancor più divertente seguire la musica, ma non è questione di divertimento: io lavoro sulla partitura – pur non essendo musicista – perché alcune cose devono accadere su quella nota o su quel punto, altrimenti non hanno senso».

Il cinema ci ha abituati a pensare al Nino Rota come autore di colonne sonore, quando invece è anche un compositore straordinario. Ha trovato delle sorprese studiando la partitura?
«All’interno non ci sono solo le citazioni di cui si parlava prima in conferenza, ma anche autocitazioni. È un procedimento creativo non solo legittimo  ma anche “vero”, perché i materiali immaginati e usati per un’altra circostanza possono ritornare in un’opera successiva, quindi si sentono gli echi di cose che sono diventate famosissime, in certi punti senti anche Il Padrino in qualche modo, al di là delle citazioni operistiche da Rossini e Verdi, quindi si sente molto anche Rota».

Quindi, senza svelare troppo, cosa ci dobbiamo aspettare da questo Cappello di paglia?
«Quello che posso sperare è che possiate trovare un’opera fresca sulla scena, musicalmente coinvolgente perché le voci ci sono e quindi mi piacerebbe che il pubblico uscisse con delle immagini e dei motivi in testa».

lfmusica@yahoo.com

Luca Fialdini
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