Intervista a Veronica Raimo

wbresizeTutte le feste di domani di Veronica Raimo

 

Veronica Raimo è una giovane ma affermata scrittrice contemporanea. Nata nel 1978 a Roma, si è laureata in Lettere sul cinema della Germania divisa, ha vissuto a Berlino occupandosi di ricerca presso l’Università di Humboldt e ha pubblicato con Minimum Fax e Rizzoli, e su diverse testate, fra le quali Alias, Il manifesto, Le Monde diplomatique, XL di Repubblica, e altre ancora. Questo mese ospitiamo una sua intervista, raccolta per TuttoMondo dall’esordiente Claudio Selva  a sua volta intervistato dalla nostra rivista nel mese di dicembre – in cui conversano a proposito del secondo romanzo di Veronica: Tutte le feste di domani, edito da Rizzoli.

Tutte le feste di domani è uno di quei libri affascinanti e a tratti crudeli che mostrano quanto c’è di ridicolo e posticcio nei sentimenti, nei desideri e in definitiva nella vita… mi ha fatto venire in mente quello che scrisse Henry James a proposito dell’Educazione sentimentale: “leggerla è come masticare cenere e segatura.”
Quanto pesano le esigenze estetiche, in questa tendenza al cinismo che è uno dei tratti ricorrenti della buona letteratura?

Mi piace pensare che il cinismo non sia l’orizzonte di riferimento in quello che scrivo. Anzi spesso il cinismo è proprio la tentazione, o meglio la seduzione, che vorrei evitare o superare. A posteriori, le cose che apprezzo meno tra ciò che ho scritto sono i momenti in cui mi sono lasciata andare con troppo compiacimento al cinismo, che può rivelarsi una via facile per stabilire una complicità automatica con il lettore, e quindi una complicità sia scontata che sterile. La letteratura dovrebbe andare oltre, la tensione non può essere verso il cinismo o rischia davvero di inaridirsi, di comprimersi in una lingua da giornalismo caustico e brillante, e di conseguenza anche quelle che chiami le “esigenze estetiche” rischiano di diventare artificiose nel loro tentativo di essere accattivanti. Ecco, penso che il cinismo possa diventare il modo più semplice per cautelarsi da altri rischi; prendi uno scrittore come Fitzgerald, sempre in bilico tra sentimentalismo e cinismo, la sua forza sta proprio nell’esplorare lo scarto tra le due diverse tensioni, e arrivare a una sintesi in grado di creare pagine meravigliose.

La protagonista del romanzo, Alberta, tende a vivere quello che accade fuori e dentro di lei in modo mediato, confrontandolo con vari modelli di ciò che “dovrebbe” essere. Questo continuo confronto la porta in un certo senso a recitare la vita e a giudicarla come se ne fosse spettatrice. È un comportamento che in misura diversa appartiene a tutti e in Alberta è più accentuato, oppure il punto è che lei ne è consapevole, che vede la propria finzione e quella altrui?

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Credo sia in parte impossibile sfuggire da una continua mediazione con dei modelli; e in fondo perché dovremmo? Più tendiamo ad analizzare noi stessi, più, in un certo senso, creiamo nuovi modelli, oltre a usare quelli che già conosciamo. Ma allo stesso tempo le trappole dell’autoanalisi ci fanno ritrovare incastrati in una specie di vicolo cieco. Penso al racconto Caro vecchio neon di D.F. Wallace, alla drammatica incapacità di sentirsi sincero provata dal protagonista, alla sua convinzione di essere sempre riuscito a fingere e a ingannare gli altri, che alla fine lo porterà a una disperazione anch’essa mediata. Ma credo che pure la più feroce e sottile autoanalisi, la più elaborata forma di autoconsapevolezza, non siano strumenti abbastanza accurati da offrirci una visione completa di noi stessi. O meglio, sono accurati, ma l’accuratezza è un finto miraggio. Il controllo può arrivare fino a un certo punto. Come in una partita di Go, la strategia – che pure sembra tutto – lascia comunque scoperto un margine di imprevedibilità e creazione. Non esiste un computer in grado di giocare magistralmente una partita di Go. In letteratura mi interessa proprio lavorare su quello scarto. Creare dei personaggi iper-consapevoli e allo stesso tempo ridicolmente ingenui sotto vari aspetti. Alberta è così. Il dilettantismo emotivo non è antitetico all’iper-consapevolezza.

In effetti, anche se l’amore che Alberta prova o crede di provare per Carsten sembra un tentativo di avere qualcosa da desiderare, la “voglia della voglia”, questo inventare e alimentare l’amore sembra funzionare, darle una felicità paragonabile a quella che aveva da piccola prendendosi cura della formica inesistente. Un’altra di quelle finzioni amorose che piacciono tanto a noi italiani?

Non ci ho mai pensato nei termini di una finzione consona al carattere italico. In realtà non vedo una grande differenza tra l’amare e il desiderare di amare. Non credo che da una parte esista l’amore spontaneo, e dall’altra il tentativo di edificarne uno. Ogni vero amore è un costrutto, una creazione, al tempo stesso un lavoro e una meravigliosa perdita di tempo. E quindi come si desidera un desiderio, credo che ciò di cui ci si innamora sia essenzialmente il proprio modo di amare. Tutto ciò che esso è in grado di fare per noi, creativamente. Come un artista in fondo ama molto di più la propria arte che il prodotto della sua arte. La prima gli è necessaria, è parte della sua identità, il secondo no.

Nel libro ricorre una frase di Malamud, “si scrive delle vite che non si possono vivere”. Suona un po’ come un rimpianto.



download (1)Sì, assolutamente. La forma del rimpianto mi sembra una delle narrazioni più interessanti. In prospettiva è anche una narrazione che riguarda il futuro, creare le condizioni emotive per cui ci si prepara al rimpianto. E m’interessa poi lo scarto rispetto alla memoria, l’ipotizzare un dispiegarsi degli eventi secondo un arco lievemente diverso dalla realtà. Forse il rimpianto è proprio la possibilità di aggirare il reale, per questo lo trovo più interessante. Nel saggio Sul tenere un taccuino Joan Didion scrive: “Non solo ho sempre avuto dei problemi a distinguere tra quello che è veramente successo e quello che sarebbe potuto succedere, ma continuo a non essere convinta che la distinzione, ai miei fini, abbia qualche importanza”. Sono piuttosto d’accordo con lei, anche se non so nemmeno dire esattamente quali siano “i miei fini”.

A proposito di Tutte le feste di domani, Carlo Mazza Galanti ha scritto sul Manifesto: “Fosse stato scritto da un romanziere americano (…) come Franzen, per esempio (o come Roth, per guardare più in alto), sarebbe probabilmente incensato a piene mani da critici e lettori.”
Massimiliano Parente invece l’ha stroncato, definendolo “una minestrina Harmony”.
Ti senti influenzata dal giudizio dei critici?

No, non mi sento influenzata, ma non voglio neanche dire che non me ne frega niente. Ho scritto due libri molto diversi tra loro, quindi c’è chi ha amato il primo e meno (o per niente) il secondo, e vice versa. Soprattutto rispetto a Tutte le feste di domani ho ricevuto giudizi totalmente opposti anche da coloro che l’hanno apprezzato. Quindi penso che ognuno ci trovi che quello che gli pare in un libro, e in un certo senso per me è un sollievo. Non ho più (se mai l’ho avuta) un’ansia auto-giustificatoria rispetto a ciò che scrivo. Reagisco in maniera abbastanza tranquilla alle critiche, e non sopporto quella specie di alibi molto comune di chi dice “ah, vabbè, ma era voluto!”. Prima di consegnare la versione più o meno definitiva di Tutte le feste di domani, l’avevo fatto leggere a un po’ di persone di cui mi fido. Anche in quel caso ognuno avrebbe cambiato qualcosa di diverso. C’è chi amava molto la prima parte, chi mi diceva che il libro decollava da metà. Persino su delle singole frasi c’era discordanza: “Bella questa!” o “Hm, io la toglierei…” Quindi, ecco, anche a volermi davvero fare influenzare finirei per diventare schizofrenica.

Ultima domanda: stai già scrivendo il tuo terzo romanzo?

Sì sto lavorando a un nuovo romanzo, ma credo si tratterà più di una novella che di un romanzo. È una cosa abbastanza nuova per me perché è una storia ambientata in una società inventata, ma non mi sento di dire più di questo.

Claudio Selva 

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