Quando mai una danza funebre tribale aprì una celebrazione? In questo caso, ovviamente. Una follia resa possibile dalla mente oscura del cantante organista Jaz Coleman, accompagnato dal batterista Paul Ferguson, dal chitarrista Geordie e dal bassista Martin Glover, che nel 1979, a Londra, crearono i Killing Joke – lo scherzo che uccide.
Questa era la faccia oscura della fine degli anni 70: se da una parte David Bowie luccicava vestito da prostituta e i Duran Duran arricciavano i loro capelli, dal lato opposto si tenevano i riti pagani nati dalla tristezza delle periferie nordamericane, londinesi e irlandesi; da quel senso di insoddisfazione verso una società stagnante e industriale, specchio dei problemi interiori dei musicisti. Ciò che si tendeva a mettere in evidenza, con queste forme musicali, era la debolezza interiore dell’individuo, ridotto ad automa postbellico, la depressione, il suicidio, le malattie mentali e i casi psichiatrici, parte ormai di questo mondo nebuloso e fatto di echi e rimpianti. I Joy Division stavano battendo già la strada in un ambiente fatto solo di fabbriche e capannoni industriali desolati, e l’epilessia di cui soffriva il frontman, Ian Curtis, era ormai divenuta la malattia dei nuovi dannati incompresi: la malattia dei nuovi semidei, ippocraticamente parlando.
In questa necessità di sperimentazione e di sfogo dei tabù mentali, arrivarono i Killing Joke. Crearono il loro stile dal sound marcio, stanco, oscuro e irrazionale, che già serpeggiava nella musica degli anarchici Pere Ubu (nome ispirato alla pièce di Jarry, Ubu Roi, caratterizzata dalla satira e dall’insofferenza per le convenzioni), in parte della musica dei pagani Virgin Prunes, dei Siouxsie, e dei signori del funk-dark, i Pop Group.
Sull’orlo della follia, follia come possibilità di rinascita e di fuga da tutte le convenzioni, come predicavano gli artisti del Living Theatre in quegli anni e già da tempo; Killing Joke è l’album del fango secco e dell’acciaio, proiettato verso la new wave con una particolare attenzione per i connubi dissonanti. Abbiamo già visto come tra gli anni ’70 e ’80 la sperimentazione musicale avesse dato vita a degli ibridi interessanti: i Police punk-reggae e Bowie, elettronica-rock. Bene, i Killing Joke esprimono l’ibridazione a loro modo: punk e dark, ma anche punk e kraut-rock; insomma una vera commistione di disagio verso le etichette tradizionali e aperta all’ingresso della pazzia umana.
Il pezzo che apre l’album, Requiem, dice basta a tutto il punk che c’è stato, è un rasare al suolo, un po’ come avevano fatto i Police ma in maniera meno british e più brutale. Il titolo genera lo straniamento, la chitarra distorta e il basso martellante diventeranno il biglietto da visita per la X Generation dei primi anni novanta, e soprattutto per i virtuosismi della chitarra della musica Shoegaze. Con questo pezzo si rivoluziona il rock, e il rumorismo sperimentale, amato molto da Coleman, che si professava intellettuale-futurista, entra a far parte del disco. Il pezzo Wardance evoca i balli tribali e i sabba dove la ragione perde il proprio campo di azione ed entra in scena l’ossessione. Bloodsport è il pezzo funky; ma un genere di base “maggiore”, ovvero generalmente solare come il funky, diventa qui il pretesto per creare una danza macabra e martellante, dove sembra che centinaia di mani putride sbattano tra loro a ritmo di musica. Si sente qui un altro connubio dissonante, il funk-dark, ma mai come il dark unito con la musica latino americana, di cui avremo modo di parlare nelle prossime puntate.
A seguire, il pezzo migliore: The Wait. La chitarra è acida e grezza, sibila, mentre la batteria, asciutta e risoluta, riprende la sua solita cantilena tribale. Si aspetta. Cosa non si sa, ma intanto si balla, forse tutti in cerchio, accompagnati da uno scheletro che suona il clarinetto, come nella copertina di Mr. Clarinet dei Birthday Party, altra band dalla follia rock-tribale come i Killing Joke.
Registrazioni in tedesco e testo della canzone in inglese, aprono un altro pezzo: $ 0,36, l’ennesimo titolo scabro e sintetico, inno alla miseria melodica e avanguardia pura in cui emerge il plurilinguismo, in cui due idiomi si sovrappongono, non sempre a tempo di musica. La medesima tecnica – usare lingue diverse per generare un sussurrio incomprensibile, mettendo in pericolo l’ascoltatore – era stata utilizzata per tutti gli anni settanta nella produzione del teatro post-drammatico di Peter Brook, Eugenio Barba, Robert Wilson e altri. C’è qualche discorso in sottofondo, ma noi non sappiamo cosa vuole dire. Dobbiamo capire? Teatro e musica oscura sembrano essere qui figli della stessa mentalità, quella che nel post-strutturalismo rifiutava di dare delle risposte che categorizzassero il mondo, affacciandosi sulla visione nichilista. Con questi brani ascoltiamo confusi una lingua interiore e sconosciuta, quella degli strumenti dei Killing Joke, che soffre per farsi comprendere.
Insomma, a chiudere il disco la band ci dice che siamo tutti dei Primitive: mezzi uomini tra l’impiego e la follia, fantasmi del dopoguerra del punk, mutilati dalla rivoluzione industriale della fine del XX secolo:
Primitive feeling
primitive way
getting closer
to the primitive day
follow the feeling wherever it goes.
La band forse si aspettava una rinascita, un’Apocalisse, una nuova era dove tutto sarebbe ricominciato. Change, dice l’ultimo pezzo, tra un eco e un altro che imita la sintesi vocale dei Suicide.
Da ascoltare:
Suicide (Album) – Suicide
Mr. Clarinet – The Birthday Party
The Modern Dance – Pere Ubu
Virginia Villo Monteverdi
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