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L’altare del Santissimo Sacramento del Duomo di Pisa di Giovan Battista Foggini
PISA – 1595. Un disastroso e inaspettato incendio devasta l’area del transetto nord della Cattedrale di Pisa, causando tra i molti danni la scomparsa di un ciborio in legno (concluso meno di due anni prima da Andrea Guardi) che custodiva il Santissimo Sacramento all’interno della Cappella dell’Annunziata. Ma l’Opera della Primaziale pisana non naviga più nei fasti medievali o nella loro lunga eco, e ci vorrà quasi un secolo prima che il Sacramento trovi una nuova e definitiva sistemazione.
Nel 1678 il Granduca di Toscana Cosimo III decide infatti donare alla comunità pisana un assaggio del suo lussuoso mecenatismo, fornendo di tasca propria l’argento per realizzare tabernacolo e ciborio dell’altare, un arredo liturgico dalle proporzioni monumentali (più di tre metri e mezzo di altezza), in bronzo e argento parzialmente dorati, più altri materiali di sostegno . Dagli archivi dell’Opera sappiamo che il 30 dicembre del 1678 Giovan Battista Foggini (1652-1725), scultore fiorentino alla sua prima vera e importante commissione granducale, presenta un conto per la realizzazione dei modelli in cera, e di poco precedente è il contratto con Sebastiano Tamburini (orafo pisano già testimoniato in Cattedrale per alcuni candelabri). I due però non saranno pagati che nel 1686, a lavori ampiamente conclusi: l’opera riporta infatti la datazione 1685, in anni pisani, in un’epigrafe sul retro dell’altare che insiste sulla magnificenza del Granduca
.Chi era il Foggini, all’epoca? Poco più che un esordiente di gran fama: si era formato in gioventù presso il pittore Vincenzo Dandini ed poi con lo zio Jacopo Maria Foggini, ricordato dalle fonti (Baldinucci su tutti, che lo conobbe personalmente) come decoratore e architetto, e attivo presso la corte granducale per la creazione di carrozze cornici e altri arredi. Era stato lui a introdurre Giovan Battista a quell’ambiente: quando nel 1673 il nuovo granduca Cosimo III aveva deciso di fondare in Villa Madama a Roma un’accademia artistica fiorentina sotto la guida di Ciro Ferri ed Ercole Ferrata, allievi rispettivamente di Pietro da Cortona e Alessandro Algardi, la scelta di Giovan Battista era stata ovvia. Lo scopo della scuola era quello di aggiornare la cultura artistica fiorentina (soprattutto la scultura, rimasta impelagata in lunghissimi e sempre più rustici strascichi del manierismo Giambolognesco) sui più recenti sviluppi del barocco romano, teatrale e solenne. Dopo tre anni e mezzo il Foggini era tornato a Firenze, col suo carico di studi dall’antico e dal moderno sia in statuaria che in architettura, e si era fatto notare ottenendo una grande commissione “alla romana” dalla famiglia Corsini: la cappella nella Chiesa del Carmine intitolata al santo di famiglia, Andrea Corsini, di fresca canonizzazione.
Nel 1678 il Foggini ha ancora negli occhi, freschissima, l’esperienza romana: per adesso è lontano dall’essere il grande architetto plenipotenziario dei granduchi, e le innovazioni di Bernini e il fasto romano non sono ancora modelli da ripetere con quel po’ di stanchezza e di goffaggine provinciale che sbucheranno fuori negli anni successivi. Per quanto debole in alcuni aspetti, l’opera si presenta come un vero capolavoro, attestando così un interesse continuato di Foggini a tenere sotto controllo i lavori da lontano, tramite la presenza in loco del collaboratore e cugino, l’orafo Bernardo Holzmann. Nei due gradini palpitano sedici riquadri con le scene della Passione e Resurrezione, realizzati in argento e montati in una struttura in bronzo parzialmente dorato decorata da diciotto teste di cherubino; sui lati esterni dei gradini troviamo invece decorazioni a racemi e quattro teste di cherubini, con la stessa impaginazione che era stata pensata per il paliotto (ivi con l’aggiunta di due figure femminili assise, si veda il disegno assai danneggiato al Museo di San Matteo segnalato da Klaus Lankheit) che però non venne realizzato (l’attuale in bronzo è opera di Bruno del Chiocca, 1965, copia di un originale ligneo del 1830 di Giovanni Salghetti). Tra i gradini il tabernacolo è incorniciato con volute, teste di cherubini e due cariatidi; il crocefisso che lo sovrasta e lo sportellino (con la Cena ad Emmaus) furono sostituiti, dopo un furto nel 1912, da copie. Sopra di esso si levano in volo tre angeloni in bronzo che non nascondono i pesanti supporti (a differenza dei loro stretti parenti di Ciro Ferri alla Vallicella, il cui progetto per il Ciborio fu modificato proprio per impedire questo sgradevole effetto), i quali sembrano sollevare senza sforzo il peso di un tempietto esagonale, recante agli colonne binate su plinti sormontate da coppie di putti con i simboli della Passione. Su ogni faccia del tempietto è presente una nicchia, ma l’unica ad essere occupata è quella centrale, col Cristo Risorto in Gloria, sotto il quale è visibile lo stemma mediceo.
L’intero impianto barocco dell’altare è costruito in modo da dialogare sul tema della Redenzione col prestrato cinquecentesco della cappella, originariamente dedicata all’Annunziata. Questo tema era già stato avviato con la connessione tra la Scena del Peccato Originale e l’Annunciazione (Maria è senza peccato e con il suo sì permette alla Salvezza di entrare nel mondo, attraverso Cristo), ma viene ancora proseguito nel suo sviluppo temporale attraverso la Passione e la Resurrezione di Cristo. Possiamo così spiegare l’insistenza iconografica sul tema (sia sui gradini che nei simboli retti dai putti sul ciborio) della Passione. Un altro dato fondamentale per la composizione è la volontà di avvicinarsi al gusto da messinscena teatrale proveniente da Roma, sulla illustre falsariga della Cappella Cornaro e in generale degli impianti berniniani. Qui le statue dell’Angelo e della Madonna del Moschino fungono a tutti gli effetti da quinta scenica alla miracolosa elevazione del Ciborio.
Di seguito, tra il 1687 ed il 1690, Foggini lavora ancora per Pisa, sempre su commissione personale di Cosimo III, alla tomba/reliquiario di San Ranieri nel transetto opposto, che fronteggia l’altare appena compiuto. Il monumento è realizzato in marmo verde, bronzo dorato e argento, con una base di granito rosa, e contiene una seconda urna di cristallo rilegata in bronzo dorato con le solite testine di cherubino del coperchio, trasportabile in processione e esponibile anche in chiesa, in quanto le pareti laterali, decorate da girali di acanto in bronzo, sono rimovibili. Sopra il coperchio due angeli si inginocchiano a deporre una corona di rose in bronzo dorato, brano di virtuosismo avvicinabile a quello dell’urna di Santa Maria Maddalena dei Pazzi di Foggini e Massimiliano Soldani Benzi su disegno di Ciro Ferri.
Per dare qualche esempio del carattere ancora estremamente romano dell’opera, si possono richiamare gli stilemi cortoneschi di Ciro Ferri, evidenti nel trattamento squisitamente pittorico che Foggini recupera nei freschi paesaggi alberati dei gradini, o anche nella dispozione dei soldati, soprattutto nella scena della Crocifissione. Ma sopratutto, come vide Jennifer Montagu, nella ripresa concettualmente puntuale del progetto di Ciro Ferri di poco anteriore per il ciborio dell’altar maggiore della chiesa di Santa Maria in Vallicella, già decorato dal Rubens. L’altro maestro degli anni romani, Ercole Ferrata, pure sculture di alto livello, era meno dotato di una personalità e di una capacità d’invenzione sue specifiche, ed infatti, per quanto non si distacchi mai troppo dai canoni più posati che gli derivavano dall’apprendistato con Algardi, lavorò anche a lungo per Bernini. Le influenze di quest’ultimo pure non mancano qui di farsi sentire: si confrontino il primo progetto del Santissimo Sacramento di San Pietro e sopratutto la realizzata figura del Cristo Risorto con quelli di Foggini. La cupola sommitale decorata a racemi deve qualcosa alle invenzioni berniniane: il suo andamento vagamente a cipolla rimanda alla fortunatissima struttura a dorso di delfino ideata per il Baldacchino di San Pietro. I racemi sono un motivo forse derivato da esperienze fiorentine come la cuspide intagliata in legno da Luca Boncinelli (1674) e aggiunta al tabernacolo di Michelozzo in Ss. Annunziata, o addirittura la cupoletta del ciborio di Santo Spirito del Caccini all’inizio del Seicento; o forse dal coronamento di una struttura effimera apparentata con una prima redazione del Baldacchino di Bernini, di cui è responsabile Orazio Torriani, il Talamo per la Processione del Rosario di Santa Maria della Minerva a Roma (1625). Questo uso dei tralci e dei girali vegetali come ornamento ossessivo, a tratti tendente all’horror vacui, è comunque caratteristico della ricezione un po’ confusa e banalizzante che ebbe il barocco fiorentino delle campagne decorative di Pietro da Cortona e Ciro Ferri a Palazzo Pitti. Il motivo stesso degli angeli che si librano in volo recando con sé strutture architettoniche apparentemente prive di peso deriva dal Bernini di San Pietro, sia dalla Cattedra che dal primo progetto per il Santissimo Sacramento vaticano. Esperienze simili in ambito fiorentino potevano essere il ciborio d’argento disegnato da Alfonso Parigi per l’altare maggiore della SS. Annunziata a Firenze ed eseguito da Giovanni Battista e Antonio Merlini (1655), anch’esso realizzato in argento. Secondo Cinzia Maria Sicca il movimento degli angeli fogginiani ispirò, a sua volta, gli angeli marmorei scolpiti da Gioacchino Fortini a sostegno del ciborio nella cappella della Villa Feroni a Bellavista (1699), secondo un modello di emulazione del gusto tra cortigiani e fabbriche granducali. In ultima istanza si tratta di un tema derivato dal ciborio della Cappella Sistina in Santa Maria Maggiore, ma deve ancor di più alla fortuna che questo tema ha avuto nelle realizzazioni effimere come le celebrazioni per le Quarantore, ad esempio quelle di Pietro da Cortona. È quindi quasi incredibile, ma dobbiamo riconoscere come, incastonato in una cappella cinquecentesca, nella cattedrale romanica forse più famosa al mondo, tra i marmi bianchi della Piazza dei Miracoli, sfavilli una perla nera, barocca e di gusto prettamente romano.
- L’ Altare del Foggini a Pisa: una perla nera tra i marmi bianchi - 2 Maggio 2017