Negli anni dal 1903 al 1905, Claude Debussy fu occupato dalla stesura dei «trois esquisses symphoniques pour orchestre» che compongono quel grandioso affresco impressionista che è La Mer.
Il mare e, più in generale, l’acqua sono uno dei temi centrali della musica di Debussy (basti pensare a En Bateau, La Cathédrale engloutie, Ondine, Jardins sous la Pluie, Reflets dans l’eau, per non fare che qualche esempio), rappresentati non in senso naturalistico-descrittivo ma prettamente impressionista: non si ricerca l’imitazione o la riproduzione della forma, dell’immagine, ma di riprodurre l’impressione, la natura interiore dell’oggetto senza essere obbligati ai vincoli della cagione esterna. Questo fu, tra l’altro, uno dei problemi per i primi fruitori de La Mer, poiché lo spettatore immaginava di trovarsi di fronte a un esempio di musica a programma. Questa problematica venne espressa in modo chiaro dal critico Pierre Lalo nella sua recensione del 24 ottobre 1905: «[…] ho l’impressione di essere non davanti alla natura, ma a una riproduzione della natura; riproduzione meravigliosamente raffinata, ingegnosa, industriosa, ma comunque riproduzione… io non sento, io non vedo il mare».
È naturale che lo spettatore – anche contemporaneo – possa essere tratto in inganno dalla programmaticità del titolo dell’opera e dei suoi movimenti (De l’aube à midi sur la mer, Jeux de vagues, Dialogue du vent et de la mer), tuttavia basta fare un passo indietro per liberarsi dal giogo del diktat platonico sull’arte per poter apprezzare e indagare la natura e l’anatomia di questo capolavoro impressionista. Che cos’è, dunque, La Mer? È un arazzo, tessuto «con molti fili senza un inizio e senza una fine e tutti della stessa grossezza», in questo ordito ogni elemento ha un proprio ruolo nell’equilibrio generale, dove nulla viene santificato e nulla viene sacrificato: nessuna parte è relegata al mero accompagnamento così come nessuna è elevata al maggior rango.
Al di là di ogni possibile valutazione sull’orchestrazione – di fattura strepitosa – ciò che rende tanto interessante (e importante) La Mer è il grande bagaglio armonico che reca con sé, foriero di molte delle innovazioni di questo campo di cui si renderà protagonista il Novecento.
Buona parte della musica di Debussy si basa sullo sfruttamento di quegli aggregati che Schönberg denomina «accordi vaganti», ossia quegli accordi che non rimandano ad una tonalità precisa e che non sono «classificabili come ‘suoni estranei all’armonia’», la motivazione di questa scelta stilistica da parte di Debussy deriva dalla sua costante esplorazione di un territorio ibrido, dove il vecchio sistema tonale (che comunque non viene mai sconfessato) incontra la “modalità” dei sistemi musicali giavanesi. Nella musica dell’antidilettante per eccellenza si assiste quindi a questa commistione – che peraltro, in forme differenti, apparirà anche nelle pagine di altri compositori del XX secolo – in cui il sistema tonale permane come supporto a un nuovo mondo di incatenamenti accordali che, apparentemente, trovano giustificazioni prettamente sonore.
Ciò comporta un uso differente di soluzioni accordali note, nel senso che queste perdono il significato usuale, non più applicabile alla musica di Debussy. Più nel dettaglio: nell’armonia tradizionale esiste una certa funzione tra un suono e l’accordo che lo genera, questo conferisce alla situazione armonica una caratteristica, un colore specifico, e utilizzando questo suono come perno è possibile andare a realizzare incatenamenti particolari. Ad esempio, nel secondo atto del Rigoletto Verdi, subito prima del Sì, vendetta, si trova in una situazione di do minore, facendo perno (ossia una modulazione per transizione) sul do cantato da Rigoletto passa da do minore a la bemolle maggiore, in cui il do è la terza dell’accordo. In Debussy invece, facendo tesoro delle parole di Diether de la Motte, «le voci superiori non sono sistemate ad un’altezza o un’altra a seconda del rapporto voluto con un’ipotetica fondamentale: semplicemente esse si trovano ad una qualche altezza». Questo spiega alcune situazioni armoniche particolari che si rintracciano all’interno de La Mer, ad esempio in De l’aube à midi sur la mer:
In entrambi gli esempi si noti la grande disinvoltura nel passare dal la al si, senza alcuna ripercussione sull’impianto armonico. Difatti le due note, pur essendo due gradi differenti e a distanza di seconda maggiore, sono considerate pressoché identiche dal compositore, ipotesi confermata dal fatto che talvolta le due note appaiono contemporaneamente. La giustificazione del fatto che Debussy si prenda tante libertà armoniche risiede nel suo ricorso a elementi musicali extraeuropei provenienti, come già anticipato sopra, dalla cultura musicale giavanese e in particolare allo slendro, ossia uno dei due sistemi musicali giavanesi, perché questo presuppone appunto «la mancanza di una vera e propria fondamentale, l’annullamento della distinzione fra “più importante” e “meno importante”». In questo senso è corretta la nomenclatura del prof. Mauro Mastropasqua che nella sua Introduzione all’analisi della musica post-tonale parla di «musica defunzionalizzata»
Nel suo interessante studio Ai confini della tonalità: le moderne alchimie armoniche di un antidilettante il prof. Domenico Giannetta corrobora questa idea sottolineando come nella musica di Debussy spesso determinate situazioni accordali non risolvano nel modo corretto… oppure non risolvano affatto. Numerosi esempi di questa seconda ipotesi di rintracciano, ad esempio, nel conclusivo Dialogue du vent et de la mer. Si osservi, alle battute 25 e 26 del movimento, la presenza di una c.d. sesta eccedente francese: questo accordo rimane immobile per l’interezza delle due battute, poi muove ma invece di risolvere sul quinto grado Debussy preferisce muovere verso altri lidi.
Analogamente è interessante notare con quanta indifferenza Debussy tratti il materiale tematico in senso temporale, ossia per quanto concerne l’inizio e la fine. La melodia, in senso tradizionale, possiede un inizio ben definito e un’altrettanto ben definita fine; in Debussy – e La Mer non fa eccezione – ciò non accade. Questo non significa che le composizioni di Debussy non abbiano melodia, ma che la sua funzione nell’economia del brano è molto diversa da quella della melodia classica: infatti è vero che a un certo punto dall’oceano tumultuoso dell’orchestra si affaccia un evento particolare, ma è altrettanto vero che anche gli altri suoni (tutti o quasi) «appaiono come gli elementi costitutivi di un flusso sonoro che si muove con un andamento privo di sensibili spinte motoriche, di una meta precisa, di uno scopo preciso, tanto che alla fine quell’evento melodico risulta praticamente impercettibile, nel senso che esso non giunge ad una conclusione vera e propria, ma viene piuttosto come riassorbito nella trama sonora, al cui interno pare quasi estinguersi».
A questo proposito può essere interessante dare uno sguardo più approfondito all’incipit de La Mer, in cui si assiste a un caratteristico processo di accumulazione di materiale eterogeneo, in senso sia tematico sia timbrico, in modo del tutto simile – ma con maggior coesione – a quanto farà Igor Stravinskij nell’incipit del Sacre du Printemps. A differenza di quanto accade nel Sacre, dove la melodia conserva un ruolo di rilievo, in queste prime battute de La Mer la linea melodica è completamente intessuta nel contesto armonico che la genera ed emerge da esso in modo misterioso, quasi inatteso.
L’importanza de La Mer nell’ambito degli studi debussyani risiede nel fatto – come si è qui dimostrato, sebbene in modo superficiale e fin troppo sbrigativo – che mai prima come in quest’opera il compositore abbia operato con suprema nitidezza, svelando la rigorosità delle leggi di un universo armonico che prima veniva celato dalle evanescenze impressioniste, un mondo misterioso dove i punti di riferimento esistono ma vengono ammirevolmente camuffati, in cui non si rappresenta la cosa in sé (per usare un termine caro alla filosofia) ma l’anima delle cose, attraverso un’armonia «tumultuosa e mutevole come… il mare».
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