Qualcuno in ascolto (High Frequency, Faliero Rosati, 1988)
Ci sono quei personaggi che nella storia del cinema italiano hanno occupato posizioni marginali: poco considerati dal pubblico, spesso accantonati dalla critica, allo stesso tempo innovatori o potenziali voci nuove che per diversi motivi non sono riusciti a far breccia nel difficile mondo della cinematografia italiana. Quando viene da pensare ad un nome come Faliero Rosati (Pisa, 1946) scatta subito la voglia di ripensare e riconsiderare le dinamiche proprie di un’altra storia del cinema italiano. Già alla fine degli anni ’70 il regista pisano – che fu per molti anni aiuto-regista di Michelangelo Antonioni – si era fatto conoscere con un film girato in 16mm: si trattava di Morte di un operatore, una pellicola di suspense in chiave drammatico-politica che venne presentata in alcuni festival come quello di Ischia, di Taormina e Nizza. Con l’avvento degli anni ’80 Rosati capisce che non è più il tempo di restare «chiusi nei confini della nazionalità» e, dopo l’avventuroso Il momento dell’avventura e il giallo Cronaca nera, pone la propria firma sullo spy-thriller Qualcuno in ascolto.
Anticipiamolo sin da subito: Qualcuno in ascolto non è un capolavoro e forse nemmeno un film da tre stelline, ma è un lavoro che si merita la giusta attenzione per avere nel suo stile, nella sua fotografia e nella sua struttura narrativa, un’impostazione internazionale che pochi altri film italiani di genere di fine anni ’80 potevano vantare. In quest’ottica è giusto considerare il film di Rosati come un tentativo di risposta tricolore alle pellicole di stampo giovanilista dei vari Steven Spielberg, Richard Donner, Randal Kleiser e Nick Castle che stavano facendo faville nei botteghini americani.
Protagonista del film è Vincent Spano (attore che in quegli anni prese parte a diverse pellicole importanti come Maria’s lover di Andrei Konchalovsky o a Good Morning Babilonia dei fratelli Taviani) nei panni di Peter, un tecnico di comunicazioni televisive satellitari, con la passione per la batteria, dislocato in una stazione di controllo sulle Alpi svizzere. I giorni passano nell’assoluta noia, tra l’amicizia con un coniglio e partite a scacchi giocate via-etere con un collega russo, e Peter si trova sempre circondato da monitor intermittenti (notevole la ricostruzione degli interni della stazione satellitare). Un giorno viene contattato via radio da Danny (Umberto Caglini che appare con lo pseudonimo di Oliver Benny), un giovanissimo radioamatore americano, orfano di padre, che subito entra in sintonia con Peter. Durante la visione di un incontro di boxe, visto dai due protagonisti in diretta, una tempesta fa saltare il segnale nella stazione televisiva e Peter comincerà a ricevere un segnale diverso: una camera fissa posta in un salone di una casa nella quale sta avvenendo un omicidio. I due, ignari di sollevare il sipario di un intrigo internazionale, si alleano per cercare di capire dove sia avvenuto questo omicidio.
La sinossi offre spunti interessanti – oggi come allora – come il rapporto tra privacy e mass media. Rosati raccontò che si era «occupato, sia a livello universitario, sia a Roma e persino negli Stati Uniti, di problemi di mass media, di comunicazioni di massa e di televisione ad alta tecnologia. Posso dire quindi di avere una preparazione scientifica per il film che ho girato. Non si tratta di fantascienza, ma di fatti che, nella vita di oggi, dominata appunto dall’elettronica e dall’informatica possono accadere. E quindi possono essere raccontati al cinema».Il film è scritto da Rosati con la collaborazione di due personaggi di prim’ordine: Franco Ferrini e Vincenzo Cerami e originariamente aveva il titolo di Acquarium visto che Peter vive in una casa piena di monitor e schermi video che trasmettono «città, paesi, persone in movimento. Tutti silenziosi, come se fossero pesci di un acquario».
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