Il laboratorio di scrittura creativa a cura della Casa della Donna: scopriamolo insieme
PISA – Dopo aver indagato sul mondo dell’associazionismo che collabora all’interno del carcere pisano Don Bosco, abbiamo deciso di scoprire più da vicino alcune di queste realtà. Cominciamo con la Casa della Donna che è sicuramente tra tutte le associazioni quella che vanta la collaborazione più longeva. Incontriamo il gruppo che lavora all’interno del carcere in una fredda e piovosa giornata. Il gruppo è formato da sei donne vivaci e determinate: Renata, Lalla (Rosalba), Giuliana, MariaGrazia, Alessia e Francesca. Queste ultime due sono assenti all’incontro per impegni pregressi. Il gruppo prima di iniziare l’intervista decide di comune accordo la modalità: alle varie domande risponderanno alternativamente, potranno esserci anche più risposte alla stessa domanda e alla fine le varie risposte saranno riascoltate e rielaborate dal gruppo che stilerà in forma compiuta un’unica e complessiva risposta, approvata da tutto il collettivo. In questo modo anche le due assenti verranno coinvolte nell’elaborazione finale. Questa modalità ha permesso di far sì che si sviluppasse un’ampia e articolata discussione a tutto campo.
Il gruppo della Casa della Donna ha iniziato la collaborazione con la casa circondariale Don Bosco nel 2008/2009. Il laboratorio di scrittura creativa si svolge una volta a settimana (il mercoledì) e ha una durata di due ore. È tenuto da due volontarie per volta. Alla fine di ogni incontro settimanale viene redatto un verbale molto dettagliato di tutta la lezione che viene subito condiviso con il gruppo, questo per fare in modo che tutte e sei le volontarie siano sempre a conoscenza di qualunque particolare e per non perdersi dinamiche che potrebbero essere importanti. Delle sei volontarie solo alcune hanno iniziato nel 2009 altre si sono aggiunte nel corso degli anni. Il laboratorio di scrittura per tanti anni è stato tenuto solo nella sezione femminile, da gennaio 2023 è stato inserito anche nella sezione maschile. Alcune volontarie lavorano solo nella sezione maschile, altre solo in quella femminile e altre ancora in entrambe. La partecipazione dei detenuti o delle detenute, al laboratorio di scrittura creativa è variabile, si oscilla da un minimo di 4/5 persone a un massimo di 15. Nel maschile la partecipazione è più alta solo perché la sezione maschile è assai più numerosa di quella femminile. (vedi dati delle presenze)
La vostra associazione tiene da molti anni un laboratorio di scrittura creativa, questo lavoro porta spesso a produrre dei testi, elaborati dalle detenute. Quali sono le varie fasi che precedono e che poi portano a questi elaborati?
«Nel laboratorio della sezione femminile il tema della scrittura può nascere dell’accettazione di una nostra proposta, dal gruppo stesso delle donne, dalla richiesta individuale espressa durante il giro iniziale, nel quale ci raccontiamo come è andata la nostra settimana. A volte c’è una certa pesantezza, si piange e non c’è voglia di scrivere. In questo caso, cerchiamo di alleggerire la situazione con giochi introspettivi. Altre volte, invece, scaviamo in profondità con immagini, poesie o parole – il famoso “sasso nello stagno”. Da questi stimoli scaturisce la scrittura e nascono i contenuti da scrivere.
Al maschile abbiamo iniziato solo da un anno. Abbiamo innanzitutto cercato di capire come erano abituati a lavorare, con la conduzione precedente. Su loro indicazione, abbiamo continuato il laboratorio di scrittura nello stesso modo, fornendo immagini e testi vari ispirati dai quali iniziano a scrivere. Al maschile scrivono molto e molto volentieri anche se, a volte, i racconti di qualcuno a cui è accaduto qualcosa di straordinario prendono tutto il tempo a disposizione. Ma succede di rado. Momenti felici di forte condivisione ed emozione si alternano a momenti critici, quando qualcuno prevarica gli altri e si pone al centro dell’attenzione. L’ascolto, però, rimane una costante del laboratorio».
La nostra rubrica andrà a pubblicare alcuni dei testi (sotto forma di poesie o piccole narrazioni) scritti da donne che sono detenute nella casa circondariale. Potete “introdurci” in questo percorso? A vostro avviso il lettore può riuscire a percepire le difficoltà che precedono il risultato e tutto ciò che sta dietro a quelle parole?
«Nei testi delle donne, il lettore percepisce sicuramente la sofferenza che c’è dietro le parole. È la stessa che percepiamo noi volontarie quando le donne decidono di scrivere (e se lo decidono). A volte si rifiutano, altre volte preferiscono parlare, talvolta piangere. Le donne del Don Bosco vengono tutte da situazioni sociali estremamente faticose: quasi tutte hanno subìto violenza, spesso in famiglia, molto spesso dai compagni. La loro non è una scrittura razionale: è molto emotiva, come, chi leggerà, potrà percepire».
Che tipo di rapporto si instaura con le detenute e i detenuti?
«I rapporti, in entrambi i laboratori, sono molto empatici. Al femminile, iniziamo l’attività con il raccontarci, comprese noi volontarie, come è andata la settimana. Questo ci consente di superare molte barriere: l’età (molte sono ragazze giovani) l’inesistente differenza tra dentro e fuori nella fatica del vivere, il ruolo nella relazione: non siamo lontane ma accanto a loro. Al maschile, pur non essendoci questo momento iniziale, per scelta degli stessi detenuti, l’atmosfera è decisamente gioviale e amicale. Le due ore trascorrono con una certa leggerezza, tanto da essere definite ore di libertà. Forse proprio per questo, senza che nessuno faccia domande, vengono fuori aspetti importanti della loro vita».
Sappiamo che all’interno del carcere Don Bosco operano molte associazioni. C’è rapporto tra di voi, pur avendo sicuramente ognuna un suo campo di intervento, e se sì su quali argomenti comuni? Se no, perché secondo voi?
«Su questo argomento, una decina di anni fa, come Casa della Donna organizzammo un incontro che ebbe molto successo. Erano presenti le altre associazioni di volontariato carcerario, le educatrici, alcuni detenuti in permesso o liberi, e qualche cooperativa sociale. Lo scopo era, non solo quello di dare visibilità al carcere e al lavoro che vi veniva svolto all’interno, ma anche quello di creare una rete tra noi volontari. Purtroppo non ci siamo riuscite: forse per il diverso stile di lavoro, forse per il background da cui proveniamo, non ci è facile stabilirlo, neppure adesso a molti anni di distanza. Le poche volte che riusciamo a collaborare – ad esempio con il flamenco di Barbara Sarri – oppure nelle occasioni di convivialità, gli effetti sono senz’altro positivi, e lo possiamo vedere anche nelle poche carceri in cui esiste una rete collaborativa.
Questi rapporti umani che si creano nel tempo durante tutto il percorso dei progetti, quando finisce il periodo detentivo, tendono ad andare avanti anche nella fase del reinserimento nella società? avete possibilità di seguire queste persone durante il loro successivo percorso?
«Anche in questo caso non esiste una risposta unica, poiché i casi sono tanti e sempre diversi uno dall’altro. Si stabiliscono sicuramente relazioni profonde con chi è stato tanto tempo in carcere. Con alcune si creano legami che finiscono subito dopo la difficilissima fase di reinserimento nella società. In altri casi, invece, sopratutto laddove c’è stato un percorso di crescita e condivisione reale di quello che facciamo insieme, il legame dura nel tempo. Qualcuna di noi, meno impegnata in famiglia mantiene contatti e aiuta, a volte concretamente, tante donne anche quando passano in condizione di libertà e, in quel caso, nascono, con loro, vere e proprie amicizie».
Il carcere dà subito la sensazione del “non oltre”, del muro che separa il dentro e fuori. La città è decisamente separata da queste mura. Per un qualunque cittadino, accedere al carcere è vietato oppure in ogni caso è molto complicato. Le volontarie e i volontari, che possono entrare e uscire, come vivono questa separazione tra dentro e fuori? quali difficoltà incontrate sia all’interno che all’esterno nel cercare di assottigliare questa distanza?
«Periodicamente alcune associazioni e gruppi politici entrano in carcere per visitare le varie sezioni e successivamente riportare sulla stampa le condizioni e le criticità riscontrate. Tuttavia questo non basta a creare un rapporto stabile e proficuo né con la città né con il Comune. Quest’ultimo non ha mai risolto, ad esempio, un problema che denunciamo da più di un decennio: la mancata costruzione di una zona riparata per i parenti in attesa del colloquio. Troppo spesso vediamo persone in piedi donne, magari in stato interessante, vecchi e bambini, sotto la pioggia e al freddo o diversamente sotto il sole al caldo torrido dell’estate.
Manca, inoltre, la figura di un garante che oltre a supportare e aiutare i detenuti e le detenute a risolvere i problemi legati alla loro quotidianità, possa fare da tramite tra il carcere e la città. Quindi, anche se a differenza di altre carceri più periferiche, il Don Bosco è al centro della città, si può affermare che la città è assente nei confronti del carcere. Questo ci rattrista e ci avvilisce, limitando anche il nostro intervento. E i complimenti che spesso ci vengono fatti da chi conosce la nostra realtà e il nostro lavoro non bastano a consolarci. Riceviamo, infatti, molto di più di quel che riusciamo a dare. Per questo, siamo molto contente della vostra iniziativa che vuole dare voce e visibilità al carcere Don Bosco e vi ringraziamo di averla pensata».
Tuttomondonews ha deciso di aprire una finestra sul mondo del carcere per portare fuori le voci di dentro, pensate sia utile?
«L’importanza della vostra significativa iniziativa è proprio relativa all’ignoranza e alla colpevole negazione, da parte della città, dell’esistenza di esseri umani e dei loro problemi all’interno del recinto carcerario. Se, attraverso la diffusione degli scritti dei detenuti e delle detenute, sarà possibile rimediare a questa assoluta mancanza e sollecitare le/i pisani a riflettere ed eventualmente ad agire sulle istituzioni e sul garante per risolvere qualche problema del Don Bosco, avremmo ottenuto un grande successo».
Allargando l’orizzonte anche ad altre carceri italiane, credete che un giorno le carceri potranno diventare luoghi non solo di detenzione e di “ espiazione” ma anche di riflessione e di rieducazione per chi sta scontando la pena? e se sì con quali progetti e con quali modifiche rispetto alla situazione carceraria italiana?
«Ci piacerebbe rispondere che pensiamo che la situazione sia destinata a migliorare, che anche noi siamo coinvolte nella programmazione di progetti ma non è così. A Pisa ma, ovviamente, non solo qui, ci sono problemi importanti, relativi alla quotidianità; ad esempio, il vitto di cui, all’unanimità, detenuti e detenute si lamentano, o il prezzo del sopravitto, carissimo per gente che, a stento, ha qualche euro nel libretto. Ci domandiamo poi che impatto avrà, anche nelle carceri d’eccellenza, il disegno di legge sulla sicurezza che prevede una misura sconcertante: i detenuti e le detenute, già in carcere per scontare un reato, in caso di manifestazioni interne, anche non violente (ad esempio, lo sciopero della fame) verranno accusati o accusate di un altro reato. Siamo molto preoccupate e speriamo che le forze politiche più sensibili riescano a non far passare questo provvedimento».
Per terminare una domanda molto personale: come e perché ha maturato questa scelta di volontariato all’interno del carcere e cosa le ha dato fino a oggi?
Giuliana: «quando sono andata in pensione, volendo impegnarmi nel sociale, ho sentito che il lavoro di volontaria in carcere, mi avrebbe consentito di stare accanto alla sofferenza e di conoscere un mondo, fino ad allora solo immaginato. Nel laboratorio di scrittura mi sono sentita subito a mio agio,accolta e avvolta da un flusso di umanità che, in quelle mura, si sprigiona. Esco un po’ triste perché loro restano li, ma più ricca umanamente».
Renata: «appena andata in pensione, nel 2009, mi è arrivata la proposta, che ho subito accettato, di fare volontariato al Don Bosco, come insegnante al maschile. Subito dopo sono entrata a far parte anche del laboratorio di scrittura creativa, al femminile. Questa “avventura” mi ha dato e mi dà tantissimo: soprattutto mi consente di esprimere una solidarietà concreta, fatta di vicinanza alla sofferenza, di condivisione e di empatia: quando sono lì con loro, sono me stessa, una sorella, una mamma a volte, una uguale sempre, nonostante le differenze».
Lalla: «anche io sono entrata dopo la pensione e posso dire di aver provato, da subito, una sensazione di condivisione umana molto forte. Di esserci e di volerci stare perché accolta e accettata. Di questo posso solo ringraziarli».
MG: «ho sempre avuto una sensibilità per le persone fragili, forse perché anch’io mi sono sentita sempre tale. Il volontariato mi fa sentire utile agli altri e a me stessa, uno scambio sempre vantaggioso per me. Ho fatto volontariato in tanti contesti, in questo sono capitata per caso, senza cercarlo, pur desiderandolo da tempo. Quella delle persone in carcere è una fragilità a cui pochi vogliono dare rilievo e attenzione, per paura o per una sorta di pregiudizio punitivo. È difficile abbattere questo stigma perché le persone non vogliono considerare questo mondo, non lo ritengono degno, per questo credo che sia la fragilità più trascurata del mondo. Meriterebbe invece tantissima attenzione, perché ha radici profonde nella nostra società, prendersene cura significa avere cura di noi stessi e del contesto in cui viviamo».
Credit: ringraziamo Alda Giannetti per il contributo dato alla realizzazione dell’intervista
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