L’altra metà de “il Paoletti”

Il viaggio dura poco più di un’ora, lasciando la stazione centrale di Cracovia si percorre quella parte di città che porta verso l’aeroporto: sulla destra e la sinistra dell’autobus, sul quale viaggio, si vedono passare velocemente palazzi in stile rinascimentale, poi verso la periferia incontriamo palazzoni in stile sovietico e infine in campagna una serie di piccoli boschi. Ogni tratto di strada, in città, in periferia e in campagna è supportato da piste ciclabili curate, di recente manutenzione, simbolo di una mobilità che in Italia fatica ancora a prendere forza.

Io, Duccio e Valerio ci stiamo dirigendo, per una visita, ai campi di stermino di Auschwitz e Birkenau.

Il campo di sterminio, la pista ciclabile, i compagni di viaggio originari della mia stessa borgata. Un insieme di cose mi porta alla memoria un personaggio che stavo dimenticando.

Nell’estate del 1997 preparavo un concorso pubblico, studiavo tutto il giorno permettendomi solo un’ora di tempo, dopo pranzo, per un caffè alla Casa del Popolo di Riglione.

Ed ecco che appare nella mia memoria il Paoletti

Lo vedo arrivare in bicicletta, pantaloncino corto, camicia stirata e ciabatte intrecciate. Un caffè veloce e prende subito posto all’ombra della pergola, seduto al tavolino, in attesa degli altri giocatori, per una partita a carte: briscola e tressette. Giocatore attento, tiene ben in mente le carte passate e conta i punti, scruta vigile gli avversari e si muove come se leggesse le loro carte coperte, insomma uno dei più bravi tra quelli che si alternano ai tavoli da gioco. Persona cortese, parla con tono di voce fioco ed educato ma non si sottrae al chiassoso scontro verbale che segue ogni partita di carte quando i quattro giocatori, e chi assiste alle partite, si scatenano nei commenti sulle giocate fatte. Chi non ha mai frequentato questi luoghi forse non sa che il momento più bello del gioco delle carte sta tra una partita e l’altra quando, mentre chi è di turno mischia il mazzo per il prossimo giro, i giocatori litigano ferocemente tra loro e con gli altri avventori, si sbeffeggiano, si contestano le giocate: «perchè sei andato a picche? il tu’omo chiama cuori!», «…ma se busso a fiori chi lo deve avere il tre?». E poi recitano, in un laico rosario, le massime del gioco del tressette, fino a trovare accordo su una regola assoluta che anche io, lontano e annoiato osservatore, ho imparato e ancora oggi conservo come una delle poche certezze della mia vita e cioè che «il due secondo, si passa sempre». Poche chiacchiere, non devi inventare niente: se a Tressette hai in mano un Due accompagnato da una sola carta dello stesso seme (quindi “secondo”, come nel gergo), quella carta, quando sei di turno, la devi giocare subito.

Questo è il Paoletti che ho conosciuto, lo vedo ancora accalorato e divertito, sorridente e burlone, e poi severo, incredulo e quasi incattivito col compagno di gioco che si è fatto mangiare un asso terzo! Un uomo normale nella sua apparenza, di buone maniere, sereno.

Eccolo qua! E’ seduto al tavolino, mi sorride e mi chiede di tornare alla realtà.

In quelle giornate non ero a conoscenza dell’esistenza dell’altra metà del Paoletti, quella parte di lui che non si manifestava, o forse che io non coglievo, nel valzer di carte, sigarette e moccoli della Casa del popolo

Dell’altra metà del Paoletti ne sono venuto a conoscenza troppo tardi quando, anni dopo, un trafiletto sul giornale, riportando la sua fotografia ne annunciava il decesso più o meno con queste parole: è venuto a mancare Enzo Paoletti, classe 1924, attivo nell’Associazione deportati di Cascina, era stato prigioniero nel campo di Flossenbürg e poi a Dachau, ha raccontato la propria testimonianza nel libro Liberato a metà.

Il libro scritto da Enzo Paoletti, appena riletto, è una preziosa testimonianza della vita di un giovane, di un antifascista, di un partigiano, di un deportato.

La scheda personale della Commissione regionale triveneta, avendo egli combattuto nella zona di Pordenone, lo qualifica «partigiano combattente». Paoletti, con il nome di battaglia «Luciano», ha combattuto in varie brigate fino al 2 dicembre 1944 quando, durante un rastrellamento delle S.S. venne fatto prigioniero proprio in uno dei rari momenti che dedicava a sé stesso: «mi ero fatto anche la barba quella mattina e avevo lustrato le scarpe», ricorda nelle sue memorie.

La prigionia e poi la deportazione al campo di sterminio di Flossenbürg, «un luogo triste solo a guardarlo», dove viene ribattezzato con un nuovo nome: il numero 40162, e dove – scrive Paoletti – «non avevamo diritto né al cibo né agli indumenti. Quello che ci davano era a noi donato dal grande Reich».

Paoletti nel proprio libro descrive gli orrori vissuti nel campo di sterminio, le camere a gas, i mucchi di corpi scheletriti e senza vita bruciati nelle fosse comuni, la violenza, le bastonature gli esperimenti fatti sugli esseri umani utilizzati come cavie e le quotidiane umiliazioni. Racconta, tra gli altri episodi, la vicenda di uno zingaro ungherese che, malato e in preda a una dissenteria acuta, a seguito dello sgambetto di un kapò aveva sporcato il bagno ed era stato costretto a pulire con la lingua i propri escrementi: «dopo venne picchiato a sangue, alla sera quando ritornai da lavorare questo povero compagno lo vidi sul mucchio di morti nel cortile».

Prima del trasferimento nella cittadina di Kamenz, vicino Dresda, dove verrà utilizzato in una fabbrica meccanica, essendo stato un dipendente Piaggio, Paoletti assiste all’impiccagione di un soldato russo che, cappio al collo, trova la forza di gridare: «Compagni resistete: la vostra liberazione è vicina. Viva il socialismo. Viva la libertà. Viva la Russia». Paoletti, così come traspare dalla narrazione, viene profondamente colpito da questo episodio e dalla forza di questo soldato che in punto di morte trova parole di redenzione per i propri compagni e inneggia alla propria fede politica; da questo episodio la voglia di resistere, di sopravvivere, e quindi di giocare con attenzione e al momento giusto le proprie carte nella quotidianità di quel dramma, pur leggendo la vita giorno per giorno.

Dopo una breve permanenza a Kamenz, il partigiano «Luciano» viene inviato a Dachau, per la soluzione finale, campo di prigionia dove invece riesce a resistere fino alla liberazione e, stremato, «ero pelle ed ossa» scrive, viene ricoverato prima nell’ospedale allestito nel campo, poi trasferito al nosocomio di Bolzano con gli altri italiani ammalati e feriti, e infine internato nell’ospedale di Firenze e dimesso solamente nell’ottobre del 1946. Da quel giorno vivrà, fino alla fine, una doppia dimensione: «io sono stato liberato solo a metà, soltanto “il giorno”, perché tante e tante notti ricordo continuamente quei momenti».

Paoletti, con il suo libro Liberato a metà , e con un manoscritto depositato presso l’ Archivio nazionale per la narrativa inedita, ci lascia un’interessante e toccante testimonianza della propria vicenda umana, parole da leggere e rileggere soprattutto in questi momenti nei quali non ci dobbiamo sottrarre dal denunciare il ritorno, in ognuna delle sue nuove e diverse forme, di idee portatrici di odio, violenza e morte.

Io però voglio ricordare la sua prima «metà», quella che arrivava in bicicletta, simbolo di fatica e libertà, quella che ho conosciuto personalmente, quella solare e sorridente, quella «metà» con la quale ho condiviso la convinzione che nella vita, come nel Tressette, le carte che abbiamo in mano vanno giocate con passione, al momento giusto e sempre in una proiezione di collettività, mantenendo fermo il principio assoluto che «il due secondo si passa sempre».

Enzo Paoletti, Liberato a metà, Comune di Cascina, 1994.

Manoscritto di Enzo Paoletti depositato presso l’Archivio nazionale per la narrativa inedita , una copia è conservata presso la Biblioteca Franco Serantini

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