Laura Samani è una giovane regista di Trieste e il suo cortometraggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, La santa che dorme, è stato presentato all’ultimo Festival di Cannes per la selezione Cinéfondation. Prima del CSC, Laura ha conseguito una laurea triennale in Discipline dello spettacolo e della comunicazione all’Università di Pisa. A Roma è stata seguita da Daniele Luchetti e Gianni Amelio per la classe di regia. La regista racconta la lavorazione del cortometraggio, l’esperienza a Cannes e i suoi progetti futuri.
Giacomina, dodici anni, è stata scelta come custode della statua di Santa Achillea per la processione annuale. Sarebbe il giorno più bello, se non fosse che la sua migliore amica Silene viene trovata in stato di morte apparente, ma il suo corpo è rimasto caldo. Mentre il paese grida al miracolo e decide di portare la ragazza in processione al posto della statua, Giacomina è l’unica a chiedersi se tutto è davvero perduto.
Laura, ci racconti in che modo è nata l’idea de La santa che dorme (LSCD).
«La Santa all’inizio era una storia molto diversa. Sono partita da un sentimento: la vendetta. C’era una ragazzina che vendicava la morte misteriosa della sua migliore amica. Nel periodo dell’ideazione del progetto ero piuttosto rissosa, la rabbia era l’idea ricorrente. E chi, più di un’adolescente, può incarnare un’amazzone vendicativa? Poi la mia, di rabbia, si è stemperata, si è aperto maggiormente il ventaglio di sentimenti. Sono rimaste le due protagoniste, il loro legame complesso, la morte».
Lei è di Trieste e il corto lo ha girato nelle Valli del Natisone in Friuli-Venezia Giulia. Quanto ha contato girare nei suoi luoghi di provenienza e cosa ha rappresentato?
«Girare in FVG è stato necessario. Il progetto è stato pensato e scritto per quelle terre, quelle facce, quelle cadenze… Durante i tre anni al Centro sperimentale di cinematografia si gira su suolo romano. Per questioni economiche principalmente: qualunque spostamento comporta un’impennata delle spese, ma anche lo spaesamento generale della troupe. Che, ricordiamo, è composta al 90% da studenti del Csc. Per il diploma volevo a tutti i costi girare in FVG, e a costo di numerosi sacrifici di tutti, ci siamo riusciti».
Ha scelto di girare in dialetto di matrice slovena. Ci spieghi i motivi di questa scelta e cosa l’ha spinta a incentrare la storia su protagoniste di dodici anni?
«Inizialmente la sceneggiatura è stata scritta in italiano. Nonostante avessi già la certezza di voler girare in FVG, non avevo ancora scelto una zona precisa all’interno della regione. Ero certa di volerlo girare in dialetto, non in lingua. Ma all’interno del FVG si passa da dialetti dalle influenze venete, al friulano nelle sue infinite declinazioni, allo sloveno. Quando ho scelto le Valli, il dialetto sloveno è venuto da sé. Non si può ignorare la verità che ci ha spinti a scegliere qualcosa, bisogna valorizzare le caratteristiche di ciò che ci ha colpito. Inoltre mia nonna materna è slovena, io sono nata e cresciuta sul confine. Le sonorità slovene mi abitano le orecchie dalla nascita».
Insieme ai suoi sceneggiatori, avete attinto a esperienze personali per la scrittura dei personaggi? Se sì, a quali stati d’animo delle vostre vite?
«Io, Elisa Dondi e Marco Borromei abbiamo sicuramente attinto a esperienze personali. Il corto è una storia di crescita fisica e psicologica. Posso parlare solo a nome mio, per me l’adolescenza è stato un periodo molto sgraziato. Non vedevo l’ora che finisse quell’attesa apparentemente infinita, quell’essere in bilico fra due nature. E mi ricordo la violenza di alcune sensazioni: la rabbia, la vergogna, l’emotività eccessiva. Nel corto non ci sono aneddoti realmente accaduti nelle nostre vite, li abbiamo traslati in altro, tramite metafore narrative. Forse anche per proteggerci».
Il corto è stato anticipato da un’operazione di crowdfunding. È stato difficile trovare i fondi per la produzione?
«Come anticipavo, un set in trasferta rispetto al campo base Csc, vuol dire soldi. La giusta politica della scuola è fornire a tutti i diplomandi lo stesso budget di partenza. Se vuoi girare altrove devi inventarti il modo per trovare i fondi. Per girare in FVG eravamo fuori budget di qualche migliaio di euro. Tramite il crowdfunding siamo riusciti a colmarlo, ma anche tramite la collaborazione con Civibank e Pro Loco delle Valli del Natisone, l’Ente turismo e altri sponsor generosi. Oltre al patrocinio di tutti i Comuni coinvolti. Era un progetto fortemente legato al territorio, non abbiamo mai smesso di ripeterlo. Quando gli interlocutori potenziali l’hanno capito, ci hanno dato fiducia e aiuto».
Oltre a una grandissima soddisfazione, ci racconti quali sono state le tue sensazioni con un debutto così prestigioso al Festival di Cannes e in che maniera è avvenuta la selezione per il concorso.
«Aaaah Cannes! È stato il primo festival a cui veniva proiettato qualcosa di mio. La Santa è stato scelto per Cinéfondation, la selezione aperta alle scuole di cinema di tutto il mondo. Quest’anno c’erano più di duemila corti che ambivano alla selezione, ne sono stati scelti 18. Il Csc manda di default i diplomi ogni anno, quindi aveva mandato anche il mio corto. Io me ne ero dimenticata. Non lo dico per fare la ganza, me ne ero davvero dimenticata. Perché Cannes è una cosa a cui si partecipa, ma in cui non credi verrai mai considerato, in cui si spera, ma non bisogna dirlo, per carità, sennò sei un esaltato. Quindi, probabilmente per autodifesa, il mio cervello aveva rimosso la domanda di selezione. Quando mi telefonò Dimitra Karya, il direttore artistico di Cinéfondation, pensai fosse uno scherzo».
Dove potremo vedere il corto?
«In Italia è ancora da definire. Stiamo valutando i festival a cui mandarlo. Vorremmo che circolasse il più possibile, che fosse visto nelle piazze, nei cinema, in testa ai film in programmazione».
Ricordo che prima del diploma in regia al Csc di Roma ha conseguito una laurea triennale in Discipline dello spettacolo e della comunicazione all’Università di Pisa. Che ricordo ha dell’esperienza nell’ateneo pisano?
«Pisa è stata casa, per un po’. Ho un ricordo molto dolce e molto confuso dell’Università. Non avevo la più pallida idea di cosa avrei fatto dopo, ma per la prima volta mi piaceva quello che studiavo».
Quanto è servito, in un’accademia dove s’insegna un mestiere, avere una preparazione universitaria storico-critica sul cinema a priori?
«Imprescindibile. È come in cucina: non puoi improvvisarti pasticcere, se non conosci alcuni fondamentali. Poi per carità, esiste il talento innato, ma io non sono tra quelli che improvvisano una Saint Honoré».
Quando ha capito di voler fare la regista e cosa l’ha spinta a intraprendere questa strada?
«Il desiderio c’è sempre stato, ma ammetterlo a voce alta è un’altra cosa. Credevo che le mie idee fossero banali, ritrite, autoreferenziali. Stupidamente, pensavo che non fare nulla, fosse meglio che fare qualcosa. Perché se fai qualcosa, la tua opera diventa valutabile, tu diventi valutabile. Sono rimasta in questa impasse per molto tempo. Poi per fortuna ho capito che non avevo niente da perdere nel provarci. L’ammissione al Csc è stata una bella botta di autostima».
Durante la sua permanenza al Csc quali sono state le sue figure di riferimento e quali insegnanti l’hanno seguita nella lavorazione de LSCD?
«La classe di regia è abitualmente seguita da Daniele Luchetti. Daniele ha sempre avuto con noi un approccio molto creativo. Non conduce lezioni frontali. Provoca, piuttosto, pungola per far sì che le persone si espongano. Vuole il confronto, l’opinione condivisa, lo schieramento, la creazione in scena. Sembra di stare a un’assemblea studentesca durante i giorni dell’occupazione. L’anno del diploma ci ha seguiti Gianni Amelio. Con lui il lavoro è stato diverso, devi guadagnarti la sua fiducia, anche perché per lui eravamo perfetti sconosciuti con cui affrontare un lavoro impegnativo come il diploma. Gianni immagina e racconta, tu ascolti e ribatti, lui ripropone, tu ti rifiuti, lui si inalbera. Ti affida un compito, ti chiede di non deluderlo. A questo punto, di fronte a te hai due scelte: fare come ha detto lui – e niente da dire, solitamente è la strada più solida! – o sbattere la testa nella direzione che senti più tua. Io ho scelto la seconda strada. Ci ho messo un po’ a convincerlo, ma ce l’ho fatta. Quando ci sono riuscita, mi ha detto che l’avevo convinto perché finalmente ero convinta anche io».
La santa che dorme è il suo terzo cortometraggio ma è risaputo che sta preparando al suo primo lungometraggio. In che fase della pre-produzione si trova e cosa può anticiparci?
«Il lungo si chiamerà “Piccolo corpo” ed è un on the road dai toni gotici ambientato nella Carnia dei primi del Novecento. La squadra creativa è la stessa: io, Elisa e Marco, un mostro a tre teste. Sentiamo che non si è ancora esaurita la vena condivisa, quindi continuiamo lo scavo. Abbiamo iniziato la prima stesura della sceneggiatura e siamo alla ricerca di un produttore coraggioso. Vogliamo fare un film in costume a basso budget, in Italia. Se non siamo pazzi noi…».
Lei è una delle giovani promesse del nostro cinema ma è anche una delle poche registe donne in un panorama dominato soprattutto da uomini. Quali sono le sue colleghe che guarda con ammirazione?
«In Italia Alice Rohrwacher e Laura Bispuri. Nel mondo, Andrea Arnold. La considero la mia madre putativa».
Qual è il cinema che preferisce e a quali registi fa riferimento (se ce ne sono)?
«Impossibile rispondere. Parto dalla convinzione che il buon cinema sia fatto da persone che si espongono, che mettono qualcosa di sé in scena. Proprio per questo motivo, è difficile che mi ossessioni un regista in particolare. Mi annoierei a morte, sarebbe come parlare sempre con le stesse due o tre persone. Ma ci sono persone/autori con cui passo più volentieri il tempo. In ordine sparso, oltre alla già citata Arnold: Frammartino, Larraìn, Dreyer, Brosens e Woodworth, Lynch, Desplechin, Haneke, Villeneuve, Dolan, Ken Loach, Cassavetes… Potrei continuare all’infinito, anche perché moltissime volte mi è piaciuto solo un film e il resto dell’opera omnia non mi ha provocato reazione alcuna».
In un periodo dove si parla spesso di crisi delle idee e del cinema italiano, escluso un contribuito propulsivo da parte delle istituzioni, quali dovrebbero essere secondo lei i motori (da parte degli addetti ai lavori) per una ripresa?
«Non è vero che c’è crisi d’idee. C’è spesso ottusità da parte di chi il cinema lo fa e lo produce. C’è ancora chi ragiona secondo concetti come “un progetto cotto e mangiato”, “il film remunerativo”, “quello che la gente vuole vedere”. La gente, come la chiamano con un po’ di disprezzo, la gente che poi è mia mamma, che è chiunque non faccia cinema, si adegua e guarda solo quello che le viene offerto. È difficile aspettarsi dal pubblico una richiesta a gran voce di aumentata qualità dei prodotti cinematografici, quando per decenni abbiamo involgarito il suo gusto facendo arrivare nelle sale film scadenti o unicamente mainstream. Sta a noi scrivere e girare bene, ma sta ai produttori e ai distributori aumentare la qualità dei prodotti in circolazione, perché film buoni ce ne sono. Ma non arrivano nelle sale o, se arrivano, ci restano una settimana perché hanno vinto un premio in un festival straniero. Purtroppo si punta sul solido, sul rassicurante. Sto imparando a mie spese che si tende a fare un distinguo (creativo, produttivo, distributivo) tra il cosiddetto cinema da sala e cinema da festival. Io, a quanto pare, rientro nel cinema da festival. Se seguissi questa distinzione, la mia fine sarebbe in un cul de sac, chiusa tra quattro mura, probabilmente sdraiata su allori sì, ma ignota alla gente. O distribuita soltanto all’estero, in cinque copie. Io invece voglio fare un cinema di qualità, che si fonda su sentimenti archetipici e non per questo è incomprensibile o lontano da una sensibilità diffusa. Non sono diversa da nessun altro, quello che emoziona me, emoziona altre persone. Non sono un’aliena. Questo ci siamo ripetuti come un mantra io, Elisa e Marco. Vogliamo fare il cinema che per noi è emozionante, perché emoziona noi, innanzitutto. E portarlo nelle sale, festivaliere e non. Serve più coraggio da parte di noi autori, serve arrabbiarsi, se necessario. Non salviamo vite, ma dobbiamo onestà a noi stessi e al nostro potenziale pubblico. Io non darei mai da mangiare un intruglio di fango, cacca, ogm e intonaco a qualcuno dicendogli che è il piatto forte del menù. Quindi non vedo perché offrirgli un film con gli stessi ingredienti. Per fortuna c’è un manipolo di professionisti buongustai che al pubblico ci tiene, così come agli autori. Spero usciremo da questo circolo per niente virtuoso senza alzare barricate per strada».
Cos’è per lei il cinema?
«Un atto di libertà e coraggio».
Antonio M. Zenzaro
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