Mirare il mondo attraverso una lente fotografica significa sempre, alla fine dei conti, mirare dentro noi stessi. Che cos’è la fotografia e quindi l’arte se non l’architetto e il mattone della consapevolezza dell’io, il riflesso della nostra essenza, in poche parole un autoritratto?
Siamo fatti di carne, ossa, nervi, questo lo sappiamo, lo vediamo, ma cosa rispondiamo alla domanda chi sono?
Io sono, risponderebbe l’artista, la mia stessa opera d’arte, non solo frutto della mia creatività, non creatura a me estranea, bensì riproduzione del mio io, forse il mio io stesso, traccia del mio essere più profondo. Allo stesso modo, anche lo spettatore si trova nell’opera, perché ognuno cerca sè stesso nell’arte: ciò che amiamo è, in fondo, ciò che siamo.
Quando nel 1840 Hippolyte Bayard, uno degli inventori della fotografia, scattò “autoritratto da affogato” [1] segnò l’inizio della fotografia intesa come arte, avviando il processo di emancipazione del fotografo che da addetto al funzionamento della
macchina fotografica diviene artista, creatore.
L’autoritratto afferma la presenza e l’importanza dell’artista all’interno dell’opera , sottolinea la fondamentale non oggettività della produzione artistica, filtrata delle emozioni e dal pensiero dell’essere umano, binomio insolubile di creatore e creato. L’autoritratto si configura, se vogliamo, come un mezzo per accorciare le distanze tra artista e opera d’arte che, parlando di fotografia, riflette sè stesso comunemente con un movimento fotografo-fotocamera>mondo>fotografo, mentre nel caso dell’autoritratto con un movimento fotografo-fotocamera>fotografo, che elimina la mediazione del mondo esterno e impone subito il volto del vero soggetto.
Anche in pittura l’autoritratto è stato sintomo e simbolo dell’emancipazione dell’artista rinascimentale che muove i primi passi in un modo inesplorato, verso una trasformazione che muterà la sua posizione nell’opera da mestierante a soggetto stesso, che, iniziata con l’impressionismo, avrà uno dei suoi apici nelle avanguardie degli anni Venti, come l’espressionismo.
Così anche nella fotografia contemporanea, sempre più attenta all’aspetto anti-oggettivo e introspettivo del mezzo, l’autoritratto sta assumendo un ruolo fondamentale per le nuove generazioni di fotografi, come dicevo su, per sottilineare la loro importanza nell’opera, disinteressata all’aspetto documentaristico e cronachistico dello strumento.
Vediamo, ad esempio, come nel progetto “The new painting” dell’artista filandese Elina Brotherus, nata nel 1972, l’autorappresentazione sia sempre ricorrente. Analizziamo in particolare la fotografia “Der wanderer”(il viandante) [2], al cui chiaro riferimento stilistico e concettuale della più celebre opera di Caspar David Friedrich (Der Wanderer über dem Nebelmeer, il viandante sul mare di nebbia) si aggiunge, se vogliamo, una riflessione di natura gnoseologica: come in „Der wanderer“ il paesaggio all’orizzonte di fronte agli occhi della figura umana appare informe ed indefinito per la nebbia, così l’essere umano è privato della conoscenza chiara e totale del mondo. Benché “The new painting” sia un’opera, nelle intenzioni dell’artista, di natura più concettuale, interessata al rapporto tra figura umana e ambiente, che autobiografica, la scelta di Brotherus di autorappresentarsi può essere intesa come canale per sottilineare l’importanza del pensiero della fotografa stessa come base dell’opera.
Ancora prendiamo in esame uno scatto [3] dalla serie “Urban self-portrait(2010-2012)” di Anna di Prospero, una tra le più quotate fotografe italiane del momento. La fotografa romana, classe 1987, profondamente influenzata dalla fotografia amatoriale odierna, accosta in questa serie le forme del suo corpo con le forme del paesaggio urbano, mimetizzandosi, fondendosi in un’unica creatura con l’ambiente stesso.
In tutta la storia della fotografia ad ogni modo l’espediente stilistico e concettuale dell’autoritratto è ricorrente. Senza la pretesa di una retrospettiva esaustiva, prendiamo come esempio l’opera dell’americana Francesca Woodman, nata nel 1958, che usava l’autorappresentazione come mezzo per esprimere la sua intima sofferenza per la vita. In questa immagine [4] del 1978 l’artista americana si rappresenta come una creatura demoniaca, un fantasma, simbolo di un male di vivere che la porterà al suicidio nel 1981, a soli 22 anni di età. Ancora [5]: Dieter Appelt, nato nel 1935, si interroga in questo autoritratto sul rapporto tra realtà e rappresentazione: il riflesso del suo volto nello specchio è la sua speculare
riproduzione? Il vetro appannato che offusca l’immagine riflessa la risposta.
Mirko Ciabatti
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