Le maschere dell’Odin Teatret di Eugenio Barba: dai Baratti a Talabot
Le maschere del teatro Nô giapponese raffiguranti diverse espressioni, mostrano come alla mimica facciale corrisponde una maschera e viceversa, e come il volto stesso può divenire maschera tramite la mimica delle emozioni.
La maschera è un corpo decapitato, un volto finto, che talvolta può nascondere la vitalità dell’espressione dell’attore, ma in realtà è una sfida per l’attore stesso che deve rendere tale maschera dialogante e vitale. Il volto dell’attore è nascosto ma conserva la sua vitalità sotto la maschera e ne imita l’espressione, obbligando anche il resto del corpo a lavorare in un certo modo.
In tema con il numero di febbraio dedicheremo qui uno spazio alla storia del teatro contemporaneo, soffermandoci sul gruppo dell’ Odin Teatret, fondato nel 1964 ad Oslo in Norvegia da Eugenio Barba e da alcuni attori rifiutati dalla scuole di teatro, ancora oggi operativo come Nordisk Teaterlaboratorium. Ciò che mi preme mettere in evidenza è come le maschere, che da sempre hanno accompagnato questo gruppo attoriale, non siano altro che palinsesti della poetica di tale teatro, una poetica multiculturale che sin dall’inizio ha indagato le tradizioni dei teatri e delle danze orientali, per dare vita ad un nuovo teatro che unisse la visione occidentale dell’attore e del testo a quella orientale, in cui sono il corpo dell’attore e la sua energia, in una dimensione sovratestuale, a creare lo spazio, le emozioni e le storie che nascono all’interno dello spazio e sul palcoscenico.
L’uomo e la sua energia sono il fulcro di questa visione: prima che si crei la trama, i protagonisti sono il corpo e le sue movenze che si situano fuori dai movimenti dell’esperienza quotidiana; prima che avvenga l’immedesimazione psicologica dell’attore, ciò che si manifesta è l’energia interiore dell’attore, quella che viene indagata dalle discipline orientali e che si manifesta in uno stato pre-espressivo. Tutto questo, fulcro della poetica di Barba, lo esprimono le maschere dell’Odin che riescono a diventare oggetti parlanti e esseri viventi dotati di una loro autonomia e personalità, portatrici di tutti quegli elementi di culture altre (culture dell’India, Giappone, Cina, Malesia, Thailandia, Cile, Perù, culture nordiche) capaci di creare storie attraverso una dimensione nuova che si realizza nel Teatro Eurasiano, capaci di realizzare una densa comunicazione tra usi e costumi diversi, e in grado, in quanto maschere, di proteggere, nascondere e arricchire l’attore che le porta sul proprio corpo.
La genesi delle maschere comincia dai primi spettacoli del gruppo, I Baratti del 1974, spettacoli itineranti tenutisi nel territorio Salentino. Nate attraverso il training degli attori dell’Odin a Carpignano (cioè da un lungo allenamento in cui l’attore attraverso la pratica dello Yoga e degli allenamenti previsti per le danze indiane del Kathakali, scopriva sé stesso), esse sono esempi di un momento di sperimentazione: il teatro di Barba si voleva avvicinare sempre più ai mondi marginali del popolo e degli oppressi, per dare loro consapevolezza, portando messaggi politici di rivolta, e per dare vita ad una nuova modalità espressiva che trascendesse l’elitarismo dello spazio scenico gerarchizzato e la visione aristotelica e della professionalità attoriale.
Si sentiva la necessità di creare nuove forme di aggregazione attraverso un teatro rituale privo di elitarismi: le Maschere incarnavano questa necessità e scendevano tra la gente portando con loro il teatro della “piazza di tutti”; gli attori mascherati si esibivano coinvolgendo la popolazione che rispondeva loro con le tradizioni dei balli e dei canti popolari, in uno scambio reciproco e profondo ma rispettoso delle identità.
La Maschera era diventata così uno strumento di comunicazione: nei primi spettacoli come Jhoann Sebastian Bach gli attori eseguivano giochi da clown. Gli attori Iben Nagel Rasmussen e Torgeir Whetal vestivano i panni dei clown e facevano divertire i bambini. La maschera di Iben era simile a quella di Pierrot, bianca con le lacrime e prendeva in parte origine da alcune maschere dei circhi bulgari e polacchi. Era simbolo di emarginazione e solitudine e, unita al tamburo che Iben suonava passando per le strade, creava la figura del messaggero infelice, compreso solo dai bambini. Le movenze di tale personaggio erano prese in prestito dalle danze balinesi e i suoi abiti derivavano dalla cultura latino-americana che Barba aveva avuto modo di conoscere nel 1973 con un viaggio in Cile e in Perù. Bandiere, tessuti multicolori, tamburi e gagliardetti usati dagli altri attori, facevano anch’essi parte di questo immaginario sudamericano e sottolineavano la necessità della salvaguardia di un patrimonio dimenticato e in disfacimento: Come and the day will be ours, il successivo spettacolo, punterà proprio a mettere in evidenza la cultura degli indiani d’America che, secondo Barba, soffriva la stessa dissoluzione di quella salentina.
Lo spazio era quello della realtà salentina, uno spazio aperto e non convenzionale dove gli attori come messaggeri acrobati tentavano di far rivivere una cultura popolare lontana. Questo modo di operare divenne un tratto saliente anche nelle successive rappresentazioni del gruppo che diedero vita a nuove maschere, nuove comunicatrici e nuove creatrici di spazi teatrali. Con lo spettacolo Anabasis, svoltosi in Perù tra il 1977 e il 1978 nacquero due nuovi personaggi/maschera: lo stregone di Else Marie Laukvik e Mr. Peanut di Julia Varley.
Attraverso strade e piazze gli attori camminavano sui trampoli in mezzo alla folla ed eseguivano numeri comici e grotteschi, danze acrobatiche e parate degne di un carnevale frenetico. Agitando tamburi, trombe e striscioni, sollecitavano la folla mischiandosi ad essa: da qui il titolo dello spettacolo che deriva dal classico di Senofonte che significa “spedizione verso l’interno”, ovvero un’intrusione in luoghi lontani e in spazi teatralizzati dalla presenza stessa delle maschere e dalla loro parata. Qui si assiste all’apoteosi delle maschere/personaggio evolute durante i Baratti. Else Marie Laukvik vestiva i panni dello stregone riunendo su di sé un insieme evocativo di tradizioni prese in prestito da diverse culture e rielaborate attraverso il training: la donna è sui trampoli, (espediente che di per sé è già in grado di teatralizzare lo spazio, dato che la rende innaturale nella posa e nei movimenti come accadeva nei teatri orientali), i colori del costume e le righe sulla gonna richiamano il costume tradizionale danese, la capigliatura è una grossa parrucca che può risultare simile a quella del Shōjō, il leone del teatro tradizionale giapponese, e soprattutto le unghie, lunghe appuntite e dorate, vengono dal teatro-danza thailandese, in particolare dal Khon, una forma di dramma di origine aristocratica che prevedeva l’uso di lunghe unghie ornamentali. La stratificazione delle tradizioni divenne un luogo sempre più comune nel teatro di Barba, con il fine fomentare la fantasia dello spettatore e cercarvi un nuovo rapporto in un nuovo spazio, per contrastare e criticare, con caos ed ironia, la censura del governo Peruviano sulle rappresentazioni artistiche, sbalordire e attirare spettatori di diverse origini e realtà e affiancarsi alle tradizioni teatrali di gruppi latino americani poco conosciuti.
Insieme allo stregone la parata era guidata da Mr. Peanut impersonato da Julia Varley, maschera che incarnava l’immagine della morte grottesca e deforme sui trampoli. Mr. Peanut risentì molto della visione grottesca e sarcastica della morte della cultura messicana del Dia de los Muertos, terreno dove esso nacque, e fece sua l’immagine della Calavera Catrina di José Guadalupe Posada, ovvero la morte in vesti eleganti nata dalla satira politica messicana del 1910, diretta durante la Rivoluzione contro l’aristocrazia arricchita.
Mr. Peanut, simbolo di libertà espressiva e di disfacimento, nasceva anche dalla personale ossessione per la morte che la sua attrice coltivava, ovvero quel senso di morte e precarietà che si presentava alla chiusura di Anabasis che Barba descrive: «Alla fine, tutti gli attori si stringono insieme e sono coperti da un lenzuolo nero che li trasforma in un monumento scuro e informe, sorvegliato da due figure della morte alte e sottili».
La maschera diventa così il corpo dell’attore, vive attraverso di lui, s’impadronisce dell’attore stesso ma può anche scindersi da esso e divenire presenza autonoma e carica di significato. La Varley, in un intervista del 1990, descrive così il suo personaggio con estremo realismo, dotandolo di un proprio carattere, come se sotto il corpo della maschera l’attore avesse perso ogni possibilità di controllo della stessa:
«Mr. Peanut non si fa molte illusioni, è però ostinato, continua ad uscire dalla cassa e a camminare per il mondo. La sua altezza lo separa leggermente dalla gente e così spera di essere protetto dall’ingiustizia. Ma non sempre funziona. Per anni è stato l’identità dietro la quale potevo rivelarmi e nascondermi».
Le maschere raggiunsero la loro apoteosi nello spettacolo Il Milione del 1978: basato sui racconti di Marco Polo ed elaborato in India, le presentava tutte riunite in un esplosione di esotismo, autocitazioni e virtuosismo. Qui le maschere avevano ormai definitivamente assorbito il corpo dell’attore e anche la sua sessualità: l’attore Tom Fjoderfalk era infatti vestito da ballerina del Kathakhali e interpretava un ruolo femminile dando corpo alla concezione del teatro/danza indiano, dove il corpo diviene solo energia spogliandosi dei ruoli che normalmente la sessualità impone nella società. L’attore diventava come Shiva, divinità che in sé riuniva il principio della donna (tradotto teatralmente con movimenti aggraziati) a quello dell’uomo (tradotto con movimenti energici e decisi).
Se l’oriente e l’America Latina erano state le principali fonti di ispirazione per Barba, In Talabot, spettacolo del 1988, la Commedia dell’Arte divenne un altro tema con cui confrontarsi. Talabot trattava della vita dell’antropologa Kirsten Hasturp, toccava il tema dell’emigrazione, del viaggio e dell’incontro con realtà sconosciute, descriveva l’esemplarità mitica della storia e dei suoi protagonisti, resi tramite alcune maschere della Commedia dell’Arte, foriere ormai di una cultura morta e distante e trattate come reperti archeologici. Qui Iben Nagel Rasmussen interpretò l’Angelo della storia con la maschera di Arlecchino, distrutta e ricomposta prima dell’ingresso in scena e liberata del suo ruolo standard di tipo umano. Arlecchino non era più quello che eravamo abituati a conoscere poiché attraverso Iben si tramutava in un essere enigmatico e sciamanico, vestito di un costume di frammenti organici animali e di scampoli di tessuti. Arlecchino diventava lo Sciamano dell’Africa ed era il punto di riferimento dello spettatore attraverso un percorso che si snodava nello spazio del teatro diventato attraverso di lui spazio rituale.
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Chiedo scusa, ma vorrei fare una precisazione: Joan Sebastian Bach era interpretato da Iben Nagel Rassmussen, Jan Torp (ideatore dello spettacolo) e Odd Strøm. Mentre Torgeir Wenthal, usa la sua maschera in un’altro spettacolo, che si chiama Il libro delle danze, sempre nato a Carpignano durante la permanenza del ’74.