La follia è una tematica che attraversa tutta la letteratura mondiale, di qualsiasi epoca. Il mondo del teatro non fa eccezione. E le opere di Shakespeare fanno scuola sull’argomento.
La pazzia che si respira nelle opere del talentuoso drammaturgo inglese è camaleontica, trasformista, tragica o buffa a seconda del caso, piccola scintilla o fuoco distruttore.
Il personaggio che nella memoria comune incarna i tratti della follia è senza dubbio Amleto, il principe di Danimarca, nonostante il suo sia un escamotage, una finzione, creata ad hoc per svelare gli intrighi di palazzo e smascherare gli assassini del padre, ovvero la madre e lo zio, amanti cospiratori. Una follia apparente dettata dal desiderio di vendetta.
Shakespeare, fine conoscitore dell’animo umano, riesce a creare, all’interno dello stesso dramma, un altro personaggio portatore di un diverso tipo di pazzia; stiamo parlando della delicata Ofelia, una delle figure più tristi e commoventi dell’intera produzione shakespiriana.
La pazzia di Ofelia, a differenza di quella di Amleto, è irreversibile perché reale: la giovane è vittima degli eventi, la sua mente soccombe, non riesce a sostenere la delusione d’amore e l’assassinio del padre Polonio, causati dalla stessa mano, quella del principe di Danimarca. È una follia straziante la sua, che turba soprattutto il fratello Laerte, incapace di salvarla da sé stessa:
Laerte_ Se tu ragionassi e incitassi alla vendetta non potresti commuovere di più…
Ofelia_ Voi dovrete cantare “Va la ruota in su e in giù”. È un bel ritornello, quando si lavora all’arcolaio. La figlia del padrone l’ha rubata il falso maggiordomo.
Il destino della giovane è segnato, il suo corpo scivola via nell’acqua del fiume così come la sua mente è scivolata via dal mondo degli uomini.
Ma Amleto non è l’unico dramma shakespiriano in cui si “respira l’odore della follia”.
In Macbeth ad esempio l’omonimo protagonista, accecato dal desiderio di potere, si macchia di crimini orrendi e sanguinari che ne determineranno l’insana fine. La spirale di morte ha inizio con l’assassinio del sovrano Duncan e continua con la morte di Banquo, ucciso dai sicari inviati dallo stesso Macbeth.
La follia in questo caso è una febbre, una pestilenza che si aggrava lenta e inesorabile e ammorba tutto con le sue visioni di morte. L’intero dramma infatti è giocato su un crescendo di allucinazioni che colpiscono la mente del protagonista e della consorte: il pugnale intriso di sangue, sospeso a mezz’aria, puntanto verso la stanza di Duncan, il fantasma dell’amico Banquo seduto al banchetto, le mani macchiate di sangue della Lady. La colpa li schiaccia come un macigno, li rende insonni, e neanche la sorprendente razionalità della donna sopravvive. Questa coppia quasi simbiotica si sfascia nel momento in cui Lady Macbeth, l’elemento apparentemente più forte dei due, si suicida, trascinando il compagno, rimasto solo a sostenere il peso dei misfatti compiuti, nel vortice di una follia senza ritorno.
Molti altri personaggi nella rigogliosa produzione shakespiriana posseggono una scintilla di follia: basti pensare a Mercuzio, l’amico fidato di Romeo Montecchi, scaltro personaggio fuori dagli schemi, folle quanto basta per agire senza rimpianti, d’impulso, e per morire sotto i colpi di Tebaldo, regalando all’intera tragedia un pathos senza eguali.
La pazzia, signore, se ne va a spasso per il mondo come il sole, e non c’è luogo in cui non risplenda.
William Shakespeare
Chiara Lazzeri
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