Relinquere: un viaggio nella mostra personale di Leardo Sciacoviello

PISA – Giovedì 21 aprile al Centro Espositivo SMS San Michele degli Scalzi è stata inaugurata Relinquere, la prima mostra personale dello scultore torinese Leardo Sciacoviello curata da Virginia Monteverdi e Alice Belfiore che sarà visitabile fino al 26 aprile. Il progetto è stato realizzato con il patrocinio del Comune di Pisa e i contributi della Sezione Soci Coop di Pisa e Insalateria, con la media partnership di Tuttomondo News.

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Santo Subito # 5, 2016 . Gesso plastico, legno, tessuto, plastica

 

 

Mi piace usare materiali come poliuretani espansi o gesso, quelli che comunemente usano i muratori per qualsiasi lavoro manuale, sono elementi semplici e grezzi con cui posso giocare liberamente. Mi piace sporcarmi le mani, fa parte di me e non voglio focalizzarmi su un singolo materiale per i miei lavori. Nelle mie opere ci sono tanti materiali di scarto e di recupero (tavolini, sedie, assi di legno, copri-termosifoni) che possono far pensare all’arte povera, ma voglio distanziarmi da tale poetica. D’altra parte essendo cresciuto e avendo studiato a Torino l’arte povera fa parte di me, involontariamente.
Leardo Sciacoviello

Punto di forza dell’artista che in mostra si riesce bene a percepire è la sua multiformità e fantasia nell’accostare materiali costosi e pregiati a elementi di archeologia casalinga contemporanea: in tutte le sue opere Leardo gioca con i materiali creando contrasti giocosi tra bronzo, marmo, ferro, legno, plastica, gomme siliconiche, resine e poliuretani, dando vita ad un dialogo tra manualità specializzata, artigianato e realtà domestiche. La materia è davvero protagonista delle opere dell’artista e dialoga con le iconografie scelte, ironiche, religiose e ludiche. Lavori come Ritratto di famiglia (che apre la mostra), nata come pezzo site specific per una residenza londinese, Santo Subito!, Il pranzo è servito e Di stato si muore esprimono perfettamente questa poetica materica.

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Il pranzo è servito, 2014. Bronzo, legno, vetro, tessuto e plastica

Un’instabilità strutturale conferita dall’uso di materiali rugginosi e di recupero avvolge i lavori di Leardo in un’atmosfera di vanitas semiseria dove l’artista lavora come un artigiano e un archeologo che scava e scova oggetti nei posti più diversi, dalle cantine al giardino del padre, fino alla spazzatura di amici e colleghi. Per capire lavori come Great Pacific Garbage Patch, l’accumulo di spazzatura plastica in divenire che annega un delfino in marmo, denuncia all’inquinamento ambientale, o Il pranzo è servito bisogna pensare al lavoro di recupero e rivitalizzazione del materiale fatto dall’artista: è lui che costruisce tutto, che realizza istallazioni con quello che trova, assemblando e divertendosi come un falegname e accostando il tutto a materiali ufficiosi come il bronzo e il marmo e ricercati come le gomme siliconiche. Bisogna avere un po’ di ironia per apprezzare le opere di Leardo, che a primo acchito possono sembrare scomode e inquietanti; bisogna liberarsi di stereotipi visivi e immergersi in un tunnel di ricerca iconografico in cui ogni spettatore può venire emotivamente e personalmente colpito dai lavori esposti. L’icona di Topolino, tanto detestata, è il centro nevralgico della ricerca dell’artista, è un’immagine che si sta dissolvendo e consumando come in una lenta decomposizione, diventa santa reliquia, ex voto (Santo Subito #5) pasto metaforico e teschio che invita alla meditazione sul lato effimero delle cose.

Sciacoviello ricorda: «In principio, quando ero ragazzino, pensavo che l’artista avesse il dono di trasmettere sensazioni attraverso la sua capacità comunicativa e che il bello fosse il valore assoluto. Col tempo invece mi sono accorto di quanto sia importante comunicare, ma anche esprimere con franchezza idee o raccontare storie non del tutto felici, eppure vere. Certo, preferisco il più delle volte riderci sopra e magari giocare con la realtà, con un velato senso di ironia».

La componente ludica si fonde con quella riflessiva e biografica sia nostra che dell’artista, invitando il pubblico a riconoscersi nelle opere e a sentirle vicine nonostante una prima curiosità inquieta per la schiettezza iconografica ed esecutiva. Ritratto di famiglia, un triste souvenir, un presepe blasfemo che indaga il fenomeno delle madri adolescenti, invita il pubblico ad interagire giocando: basta girare in senso antiorario la struttura che l’opera prende vita con un piccolo carillon, ruotando su se stessa come un oggetto curioso da Wunderkammer che distrugge l’iconografia della Sacra Famiglia.

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Ritratto di famiglia, 2014. Resina, legno, pigmenti, carillon, polistirene

Aulico e popolare si scontrano con Leardo e creano un forte contrasto che può tranquillamente rientrare a primo acchito nei territori del kitsch, nella definizione di Gillo Dorfles e Hermann Broch, oppure nei territori del brutto ma tremendamente reale, secondo la visione di Umberto Eco, dove l’opera sebbene la sua sostanza fortemente critica, colpisce i sensi e il sentimento generando sconvolgimento nello spettatore. Ma la vena kitsch di Leardo non è solo pura forma o effetto estetico ricercato: dietro una forma che può far sorridere o inquietare c’è sempre un forte messaggio racchiuso che indaga il nostro tempo bulimico di immagini e immaginari, fatto di violenze, ingiustizie e difficoltà tutte umane.

Santo Subito!, 2012. Gesso, ferro, legno, tessuto, plastica, vernice, luci, sensore di movimento,

Opere più giocose come Santo Subito! generano inevitabilmente attrazione e domande. Quest’ultima rappresenta infatti una specie di confessionale ecclesiastico in versione pop: è l’immagine reliquiario di una divinità collettiva in cui l’artista non ha mai creduto (Topolino), esposta come un resto santo con tanto di lumini votivi e tessuto rosso, con l’ingegnosa idea di usare come espositore una grata di termosifone che prende la forma di un confessionale profano. Anche qui la componente ludica è presente: passando davanti all’opera un sensore di movimento fa accendere la luce sopra il teschio generando curiosità e stupore. Topolino un’icona retorica ed educativa, che Leardo considera eccessiva e troppo didascalica, viene distrutta e messa alla gogna, in una morbosa ossessione iconografica, stravolta in una religiosità folle, in cui la componete dell’immaginario cattolico diventa uno strumento visivo ed estetico per generare ironia. Una società come la nostra fatta di immagini e icone decontestualizzate ed erose, religiosità onnipresente e rituali collettivi, si rispecchia molto bene nell’opera dfell’artista che ama conoscere e indagare spazi pubblici e privati, media e comunicazione contemporanea nelle diverse culture. L’opera di Leardo risente molto della visione neo pop di David Mach (con cui ha lavorato) e dichiara di essersi ispirato ad artisti che a loro modo condividevano una visione ludica e dissacrante del mondo con una forte componente religiosa: «Paul McCarthy è il artista mio preferito, mi piace il modo in cui gioca. Adoro i Chapman brothers, Robert Gober, Andres Serrano, Piero Manzoni, Elisabeth Ohlson Wallin, Paul Fryer, David LaChapelle, Giuseppe Veneziano, Bertozzi & Casoni, Luigi Ontani, Tony Cragg, Michael Landy e Raquib Shaw. Sicuramente il confronto diretto con David Mach, Cesare Pietroiusti e Mario Airò mi hanno fatto vedere il mondo sotto un aspetto diverso».

Ritratti e anti-ritratti trattati come reliquie e resti nati da processi comunicativi sono un altro elemento su cui Leardo si sofferma per studiare come noi assimiliamo e distorciamo le notizie recepite dai media. Sacred Heart, un Cristo decisamente neo pop, diventa un ritratto personale di un uomo vicino alla vita dell’artista, un simbolo di lotta sociale e un emblema di chi riesce a lottare contro le ingiustizie. L’iconografia religiosa, che pervade tutta l’opera e che viene considerata dall’artista come un messaggio subliminale sociale, prende vita qui in una tradizionale immagine che risulta stravolta, laicizzata e profanizzata. Dal Sacro Cuore tradizionale l’artista prende tutti gli elementi fondamentali ma il risultato è quello di un ritratto contemporaneo, un busto con un cuore muscolare, fissato per un’eternità e di una leggerezza strutturale impressionante (l’opera è in poliuretano e resina), lontana materialmente dai pesanti busti tradizionali. Di stato si muore segue più o meno lo stesso principio materico contenutistico: collocato in uno spazio intimo ma allo stesso tempo visibile immediatamente da lontano, è un anti ritratto dal contenuto universale che condanna la mancanza di rispetto e di cura nei confronti del corpo. Un piccolo corpo fuori dimensione umana ed esposto per la prima volta agli occhi di tutti, sembra davvero una reliquia quasi aliena, un pezzo uncanny che nella sua minutezza spiazzante porta su di sé un messaggio umano molto forte, dove la materia è la dolorosa protagonista. L’opera viene esposta qui per la prima volta ufficialmente ma già alla fiera d’arte The Others di Torino aveva avuto la sua clandestina consacrazione espositiva grazie alla gallerista Togaci della HulaHoop Gallery e Mau, Museo di Arte Urbana di Edoardo Di Mauro (l’opera non si trova sul catalogo della fiera torinese e nemmeno sul sito di The Others).

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Di stato si muore, 2015. Gomma siliconica, poliuretano espanso, legno, ferro

La posizione dell’artista su questo lavoro è decisa: «Questo lavoro non ha lo scopo di idolatrare, né glorificare, né rendere martire qualcuno. La tortura e altri trattamenti inumani o degradanti sono una grave violazione dei diritti dell’uomo, e sono severamente proibiti dal diritto internazionale. Nonostante tutto, la tortura continua a essere praticata illegalmente nella maggior parte dei paesi del mondo. Spesso le torture avvengono anche tra le mura di quei luoghi il cui corpo di ogni individuo dovrebbe essere “curato”, “protetto”, rieducato”, “riabilitato” e quei luoghi per molte persone si trasformano in veri e propri posti in cui trovano la morte per mano dello Stato. Di stato si muore non è un’opera che vuole rappresentare il caso di Stefano Cucchi, non è mia intenzione farmi pubblicità su un tema così delicato. Con essa preferisco rimanere in penombra e sostenere con solidarietà la sua causa simile a molte altre che tutt’ora accadono nelle carceri».

 

Virginia Villo Monteverdi
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