Leopardi in cucina

Leopardi in cucina: e il naufragar m’è dolce in… questi confettini…

Avreste mai pensato che il triste, pessimista, rachitico e introspettivo Leopardi  amasse il cibo, e anzi ne  fosse così goloso che sembra che la sua morte non sia da imputare al colera, che nel 1837 imperversava a Napoli, ma a un malore per aver mangiato quel giorno fatale, il 14 giugno, ben due cartocci di confetti cannellini di Sulmona (pare che fossero più di un chilo),  alcune tazze di brodo ristretto e ben due granite di limone: una dieta che avrebbe stroncato chiunque, figuriamoci il gracile poeta, che proprio a Napoli aveva sperato di poter trovare un po’ di conforto ai suoi malanni e alle sue infelicità.

Se conosciamo molto delle scelte culinarie di Leopardi è merito dei ricordi di Antonio Ranieri, l’amico che gli fu accanto negli ultimi anni di vita, e di una lista delle sue vivande preferite, ben quarantanove, scritta da Leopardi proprio a Napoli, e conservata alla Biblioteca Nazionale nel fondo documentale che Ranieri le lasciò in eredità.

L’elenco è goloso, pieno di cibi fritti e succulenti: frittelle di riso, di borragine, di mele, gnocchi di semolino e polenta, carciofi fritti nel burro, zucca fritta, pane dorato, cervelli fritti, ricotta fritta, pasta sfoglia, polpette, frappe, cacio cotto, paste frolle, capellini al burro, pasticcini di maccheroni di grasso e di magro, bodin di latte, bodin di polenta, riso al burro, patate al burro, purè di fagioli, spinaci, erbe strascicate, pesce e tonno, latte a bagnomaria, maccheroni, bignè di patate, zucca con ripieno di carne, latte fritto… Insomma, un elenco che farebbe inorridire un dietologo di oggi. Inoltre Leopardi amava dormire di giorno e lavorare di notte, e quindi mangiava senza orari e senza regole. Mangiava tantissimo gelato, tanto che sembra che non abbia voluto allontanarsi da Napoli durante il colera proprio per non rinunciare ai gelati di Vito Pinto alla Carità, famosissimo gelataio dell’epoca. Inoltre beveva tantissimo caffè, zuccheratissimo, che amava sorseggiare ai tavoli del Caffè d’Italia in Piazza S. Ferdinando.  Era goloso, senza orari, capriccioso, e sembra che negli anni di Napoli sublimasse con il cibo gli altri piaceri che gli erano negati.

Leopardi era arrivato a Napoli nel 1833, dopo aver vissuto a Firenze e Pisa, convinto dall’amico  Antonio Ranieri, che pensava che il clima e la gente di Napoli avrebbero reso Leopardi più sano e felice. Antonio è giovane, bello e spavaldo, amatissimo dalle donne, e possiede tutte le doti che mancano a Giacomo. La loro sarà una fascinazione reciproca, l’uno ama nell’altro ciò che non ha: uno la bellezza e la vitalità, l’altro la genialità.

Dopo vari cambiamenti si stabiliscono a Palazzo Cammarata, alle pendici del Vomero, accuditi da un anziano domestico di Casa Ranieri, Pasquale Ignazza, ottimo cuoco che cercherà in ogni modo di accontentare le strane e complicate pretese culinarie di Leopardi. Dei due sarà spesso ospite la sorella di Antonio, Paolina, che come il fratello subirà il fascino intellettuale di Giacomo. Assieme al marito Giuseppe Ferrigni ospiterà a sua volta il poeta nella loro bella casa di Torre del Greco, dove il poeta comporrà la famosa poesia La Ginestra. Attualmente la villa ha preso il nome della poesia, ed è sede di un Istituto di studi leopardiani.

Nelle opere di Leopardi spesso si trovano riferimenti al cibo, che diventa spesso metafora o allusione a cose ben più profonde, ma, piuttosto che con le opere della maturità, preferisco lasciarvi con i primi versi  della deliziosa invettiva contro la minestra, scritta a quindici anni: «Metti, o canora musa, in moto l’Elicona e la tua cetra cinga d’alloro una corona. Non già d’Eroi tu devi, o degli Dei cantare, ma solo la Minestra d’ingiurie caricare. Ora tu sei, Minestra, dei versi miei l’oggetto, e dirti abominevole mi porta gran diletto».

 

 

Claudia Menichini
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