«La mia macchina fotografica era un come un altro cuore, un’altra testa, non era un mezzo per vendere fotografie, per diventare famosa, era il mio cuore che parlava. Parlava con la macchina fotografica. È stato commovente, molto commovente».
Siamo nel 1977 quando Letizia Battaglia scatta nel quartiere dell’Albergheria a Palermo le due fotografie qui proposte che ci danno subito un’idea dello stile e dello spirito che la contraddistinguono. Letizia inizia la sua carriera nella fotografia a Milano all’inizio degli anni Settanta all’età di 36 anni; utilizza i suoi scatti per accompagnare gli articoli che scrive da giornalista indipendente. Lì si trova nel pieno del clima di scontro ideologico-politico, intellettuale e d’azione tra comunismo e radicalismo di destra in quelle che sono le anticipazioni della crudeltà deli anni di piombo che sconvolgono il Paese. Contemporaneamente entra in contatto con la Milano centro culturale e stimolante e ha l’occasione di fotografare personaggi di spicco come Pier Paolo Pasolini e di sostenere la protesta teatrale di Franca Rame, vittima di violenze da parte di un gruppo di fascisti. Ma solo l’inizio e questi scatti verranno poi recuperati dopo anni passati negli archivi, nascosti dai suoi successivi lavori di inchiesta.
La svolta decisiva avviene nel 1974, quando il quotidiano palermitano L’Ora la reclama proponendole di dirigere il reparto fotografico del giornale. Accetta immediatamente e inizia una lunga collaborazione. La fotografia assume per lei una forte connotazione politica, in quanto potente strumento per sensibilizzare l’opinione pubblica, grazie allo stretto legame con Franco Zecchin, fotografo con il quale trascorre anni di vita e di lavoro. Tornata nella sua città, dà inizio al primo dei suoi progetti di promozione e sostegno alla fotografia e a tutti i fotografi emergenti: nasce l’agenzia Informazione Fotografica. Ma non è solo l’interesse per l’arte fotografica a muovere e ad essere la molla dei suoi lavori. Non dobbiamo dimenticarci della sua fortissima inclinazione verso la politica, che la porterà a ritrarre sia i volti di giudici, poliziotti e uomini delle istituzioni in prima fila nella lotta contro Cosa Nostra dagli anni Settanta agli anni Novanta (da Boris Giuliano a Cassarà, dal giudice Terranova al presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella e i giudici Falcone e Borsellino), sia le scene più cruente di quegli anni folli, come lei stessa li definisce. Di fondamentale importanza sarà la foto di Giulio Andreotti con il mafioso Nino Salvo, scattata nel 1978: trovata dalla Direzione Scientifica Antimafia negli archivi della Battaglia, diventa uno dei principali capi d’accusa nel processo contro l’esponente democristiano.
«La fotografia non cambia il mondo, né la mia fotografia, né quella degli altri, ma come un buon libro, può essere una fiammella. Un libro, un’opera d’arte, un Picasso, una foto, una musica possono essere senz’altro un buon veicolo per la crescita, ma non possono cambiare il mondo. Gli appetiti della guerra, del capitalismo, delle religioni sono così forti, che la fotografia e la cultura sono una parte della lotta ma non bastano a cambiare il mondo. Niente può cambiare il mondo se non la propria coscienza. E poi si cerca di parlare alla coscienza degli altri».
Questo insaziabile bisogno di migliorare la sua realtà, questa vicinanza estrema alla lotta contro la mafia sin dagli esordi della sua carriera la portano a partecipare nel 1977 alla fondazione del Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato (dedicato al coraggioso ragazzo di Cinisi che osò scrivere sui giornali del suo paesino che «la mafia è una montagna di merda», sfidare apertamente nella sua Radio Aut i mafiosi locali, anche suoi parenti. Fu assassinato il 9 maggio 1978, lo stesso giorno di Aldo Moro, e per questo riconosciuto vittima di mafia solo decine di anni dopo grazie alla determinazione della madre e degli amici nel condurre a verità il processo).
Si impone sulla scena culturale anche come editrice dando vita, nel 1991, alla rivista Mezzocielo, bimestrale realizzato da sole donne. Nello stesso anno è eletta deputato con La Rete e diventa vicepresidente della Commissione Cultura fino al 1996.
È proprio questa intensa passione politica che, unita al suo stile e al suo sguardo, rendono i suoi scatti vera e propria arte. Non resta un mero documentarismo fine a sé stesso. Anzi, al fotogiornalismo, all’inchiesta e alla denuncia si aggiungono la capacità di rendere l’intensità e trasmettere la carica emotiva dei soggetti. Letizia si avvicina abbastanza da entrare dentro le azioni e le sensazioni di ciò che le sta intorno, ma non troppo. Preserva una cura non costruita né rigida nella composizione e un’attenzione nella messa a fuoco che le permettono di dare voce ai suoi scatti. Ma questa forza nasce in primis dalla scelta di scenari nascosti e pieni di sofferenza, incomprensione e comunque sempre pieni di emozioni vive e tangibili.
Letizia Battaglia conosce grandi fotografi come Diane Arbus, Eugene Richards e Sebastião Salgado. Entra in contatto con Mary Ellen Mark e suggella una grande amicizia con Josef Koudelka. Sono fotografi che, come lei, cercano di mostrare la realtà cruda e profonda che un occhio superficiale abituato a ricercare solo la finta bellezza rifiuta e aborrisce. Vogliono sconvolgere, e per farlo non utilizzano nient’altro che la loro empatia e la loro speciale abilità nel riuscire a trasmettere lo sgomento e contemporaneamente l’attrazione che provavano nell’essere lì, nell’esserci davvero.
Uno dei suoi ultimi progetti è quello delle Rielaborazioni. Comincia negli anni 2000 a rivedere le sue foto, a riprenderle e a stravolgerle sovrapponendole tra loro, creando effetti visivi potenti e surreali che enfatizzano e completano il senso degli scatti base.
«Tutto nasce dal fatto che non sopportavo più di essere così passiva davanti a queste fotografie. Facevo mostre, ma ero passiva. Aggiungere alle foto dei morti le foto dei vivi, dei giovani, dei bambini, delle donne, era un modo per inventarmi un’altra realtà, per spostare il famoso punctum dal morto ammazzato. Una donna nuda è la vita, è una madre, è la terra. Faccio questo: costruisco una realtà, aggiungo a una foto di morte una foto di vita. Un progetto riuscito? Non riuscito? Io ci ho provato».
E non ha ancora smesso di farlo, così come non ha smesso di credere nell’importanza della fotografia e dell’impegno e in particolare della fotografia impegnata come potremmo definirla.
«Questa serie nasce dopo anni che non fotografo più la cronaca, per non distruggere i miei negativi, mescolavo queste storie di malaffare con primi piani di donne, bambine e di cose semplici e vitali, la scena dietro era la vecchia fotografia degli anni settanta, ottanta e novanta, e davanti c’era un corpo nudo di donna visto con occhi femminili. Dopo aver fatto queste rielaborazioni, la disperazione era ancora tanta, nulla è cambiato in Sicilia e in Italia, le cose vanno male, la corruzione è forte, mi sono fermata: era il 2013».
Letizia ha anche partecipato a importanti mostre e manifestazioni in Italia e all’estero (tra cui: Centre Pompidou, Parigi; Tate Modern, Londra; Museum of Contemporary Art, Chicago; Biennale di Istanbul; Palazzo Grassi, François Pinault Foundation, Venezia; Le Mois de la Photo, Montréal; Festival International du Photojournalisme, Perpignan) e ha ricevuto numerosi riconoscimenti a livello internazionale (The W. Eugene Smith Award, New York come prima donna e prima fotografa europea nel 1985; il premio per il fotogiornalismo Dr.-Erich-Salomon-Preis, Germania nel 2007; l’Infinity Award: Cornell Capa Award all’International Center of Photography, New York nel 2009).
Ma non si è ancora fermata. È in corso a Roma la sua mostra Per pura passione in esposizione al MAXXI fino al 17 aprile. E con tutta la determinazione che ha sempre dimostrato negli anni, sta lavorando per creare a Palermo un centro di fotografia che possa raccogliere in un archivio gli scatti storici che ritraggono la città in tutte le sue sfumature, che ospiti mostre di professionisti e aspiranti tali e che offra corsi di fotografia «che significa corsi di cultura, ovvero la fotografia intesa come parte di una cultura più vasta, perché un fotografo se non va al cinema, se non legge libri, se non ascolta musica non potrà mai avere una profondità, potrà avere talento, ma poi non regge, con il tempo il solo talento non regge». Come darle torto.