Esiste un metabolismo del corpo e questo lo sappiamo bene. Ingeriamo un alimento, lo digeriamo, quelle sostanze diventano parte del nostro organismo e ci permettono di vivere. Fine. Ma esiste anche un altro metabolismo, forse meno conosciuto e senza dubbio più trascurato del primo, specie da quando la modernità ha impresso un’accelerazione furibonda alle nostre vite: il metabolismo della mente.
In esso, la letteratura ha svolto a lungo un ruolo preminente, verificato da numerosi psicologi e ricercatori. Molti sono gli autori che hanno esplicitato il loro appetito letterario, riferendosi alle parole come a un vero e proprio nutrimento, detentore di proprietà magiche, sostanze psichiche – emotive, razionali, sensoriali o morali – che necessitano, proprio come un alimento tradizionale, di un tempo di digestione e assimilazione.
Sembra, ad ascoltare questi scrittori, che l’ingestione della parola letteraria vada oltre la necessità informativa, estetica o d’apprendimento implicite nel loro mestiere. Pare piuttosto una necessità biologica. Così come l’uomo, in generale, non può fare a meno d’acqua e cibo, così lo scrittore si abbevera alla fonte delle parole.
Nella sua autobiografia il poeta cileno e premio Nobel Pablo Neruda dedica all’argomento un lungo e sensuale corsivo, prendendo le mosse da una sorta d’inseguimento, dettato, almeno inizialmente, dal bisogno di afferrare i vocaboli giusti. Un fiume di puntini rende il tutto sospeso, casuale e indispensabile come la ricerca di odori in una cucina affollata di manicaretti:
Tutto quel che vuole, sissignore, ma sono le parole che cantano, che salgono e che scendono... Mi inchino dinanzi a loro... le amo, mi ci aggrappo, le inseguo, le mordo, le frantumo... amo tanto le parole... quelle inaspettate... Quelle che si aspettano golosamente, si spiano, finché a un tratto cadono...
Presto la caccia si trasforma in appetito vorace; una volta conquistate, le parole vanno preparate, gustate, assoporate in modo addirittura fisico, con una voluttà nella quale piacere intellettuale e carnale s’intrecciano e quasi confondono:
...Vocaboli amati... brillano come pietre preziose, saltano come pesci d'argento, sono spuma, filo, metallo, rugiada... inseguo alcune parole... sono tanto belle che le voglio mettere tutte nella mia poesia... Le afferro al volo, le catturo, le pulisco, le sguscio, mi preparo davanti il piatto, le sento cristalline, vibranti, eburnee, vegetali, oleose, come frutti, come alghe, come agate, come olive... e allora le rivolto, le agito, me le bevo, me le divoro, le mastico, le vesto a festa, le libero...
Le libero… s’intravvedono, qui, gli esiti dell’abbuffata. Non si mangiano le parole impunemente. O per meglio dire: il metabolismo delle parole non è a senso unico; e chi più ne mangia più ne sfrutta; chi più ne ascolta, più ne padroneggia. E alla fine deve restituirle.
Tutto qua? No. Inghiottire parole innesca un processo dinamico più complesso. Volendo rendere omaggio all’autore che ci ha ispirato queste riflessioni, occorre spingerci oltre, sporgerci un poco nel territorio della psicologia. In Avere o Essere? Erich Fromm ci mette in guardia da una lettura ingurgitata secondo la modalità dell’avere, cioè passivamente, senza una ragionata elaborazione dei suoi contenuti (senza adeguata digestione, diremmo noi). Scrive Fromm:
La lettura di un romanzo da quattro soldi, privo di qualità artistiche, è una sorta di sogno a occhi aperti: non permette risposte produttive; il testo viene ingurgitato come uno spettacolo televisivo o come le patatine fritte che si masticano seduti davanti al televisore.
Tocchiamo allora un punto cruciale. Leggere significa assimilare e questa assimilazione può essere un evento sterile – come ammazzare il tempo – oppure fecondo, a patto che il lettore sia disposto a farsi cambiare dalle parole che incontra, mettendole in discussione. Spirito critico, capacità di giudizio e dialogo con l’opera rappresentano il momento finale del pasto letterario. Il quale non è esente da qualche effetto esoterico indiscernibile: volando in alto, in un modo forse un po’ melodrammatico, ma senza dubbio sincero, anche Roberto Saviano ha parlato di questa necessità nel suo ultimo libro, Zero zero zero:
Nell'Apocalisse di Giovanni si dice: “Presi quel piccolo libro dalla mano dell'angelo e lo mangiai: dolce come il miele in bocca nelle viscere mi divenne amaro”. Credo che i lettori dovrebbero fare questo con le parole. Metterle in bocca, masticarle, triturarle e infine ingoiarle, perché la chimica di cui sono composte faccia effetto dentro di noi e illumini le turbolenze insopportabili della notte, tracciando la linea che distingue la felicità dal dolore.
E se questo appare scontato, si pensi allora a un ulteriore somiglianza: noi non sappiamo come l’energia scorporata dagli alimenti venga di fatto impiegata, quali saranno i suoi effetti concreti; possiamo prevederli solo entro certi limiti. L’atleta sa quale dieta seguire per realizzare i suoi scopi; ma l’imprevisto è in agguato e certe energie potrebbero essere incanalate per raddrizzare imprevisti. Allo stesso modo, gli effetti di una buona lettura sono imponderabili. Era questo, secondo Eugenio Montale, il più grande potere dell’arte: la sua capacità di ripresentarsi nelle vita di tutti i giorni cogliendoci di sorpresa, illuminando gli eventi, anche minimi, che la costellano, con uno sguardo che è insieme nostro e preso in prestito, personale e universale. Se così non fosse «La musica sarebbe goduta soltanto al momento dell’esecuzione, la poesia e la pittura nel momento in cui l’occhio si posa sul foglio stampato o sulla tela dipinta. Finita la causa, finito il narcotico, tutto cesserebbe». Godere un’opera d’arte, ci dice insomma Montale, è un ritrovarla «fuori sede» perché «solo in quell’istante il circolo della comprensione è perfetto e l’arte si salda con la vita come tutti i romantici hanno sognato» (Auto Da Fé, Il Saggiatore, Milano, 1966).
Ma giorno dopo giorno la nostra alimentazione è divenuta strabordante, caotica, arrivando spesso a saturarci. Poche ore su Facebook bastano a introiettare una dose d’informazioni che un tempo avrebbero richiesto anni di viaggio e apprendistato.
Sfiorando uno schermo possiamo assistere a uno spettacolo, informarci sullo stato di salute di un amico, leggere una recensione, aggiornarci sulle ultime news, commuoverci del pianto di una madre fra le macerie del terremoto e poi sbellicarci per le prodezze di un gattino al suo primo bagnetto. E tutto in pochi minuti, presto dimenticati. Un minestrone senza ricetta. Un’accozzaglia di sapori che anestetizza le nostre capacità sensoriali, di cui la Tv era solo un antipasto. In altre parole, il rischio è quello di perdere la capacità d’instaurare un autentico rapporto con le nostre emozioni e i nostri pensieri e quindi di costruire una gerarchia di valori difendibili. Pericolo moderno ancora una volta evidenziato dallo psicologo Erich Fromm in Fuga dalla Libertà.
Ecco allora che il tempo della lettura meditata di un libro, oggi forse in via d’estinzione (secondo Istat oltre il 60% degli italiani non legge neppure un libro all’anno) diviene cruciale: perché consente ancora di strutturare il mondo, di tenere insieme un universo interiore coerente, incorporabile e diverso dal nostro. Probabilmente, mai come oggi, ai tempi del web, questo valore è in pericolo.
Possibili rimedi? Leggere poco, leggere meglio. Essere inattuali: rileggere. Lasciare del tempo fra una lettura e l’altra: darsi tempo per digerire. Ci viene il dubbio di aver parlato a vanvera: piuttosto che leggere quest’articolo, forse avreste fatto meglio a masticare un buon libro.
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