Racconti di cinema
Dalla fine del 2014 sugli scaffali delle librerie italiane, Racconti di cinema, a cura di Emiliano Morreale e Mariapaola Pierini, è un libro di notevole rilevanza culturale: un’antologia di 33 racconti italiani ed internazionali che regala al lettore esperienze cross-mediali tra letteratura e cinema.
Scorrendo i nomi degli autori contenuti in questo volume possiamo imbatterci in personalità che ormai rientrano nel gotha degli autori del Novecento (Truman Capote, Francis Scott Fitzgerald, Guillaume Apollinaire, Vladimir Nabokov), autori italiani famosi (Dino Buzzati, Guido Gozzano, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda, Mario Soldati), autori italiani da riscoprire (Massimo Bontempelli, Piero Santi, Gabriele Baldini) e pezzi di storia eclettica dello scorso secolo (James G. Ballard, Richard Matheson, Ray Bradbury).
Ma a quali tipologie di narrazione ci troviamo di fronte sfogliando le pagine di questo libro? Racconti brevi che vedono il cinema giocare come protagonista assoluto. Detta in modo più specifico, è possibile immergersi storie reali di attori, casi di cronaca – a suo tempo – eclatanti, dialoghi con star, storie di cinema inteso come struttura fisica e cuore pulsante di una città, ma anche storia in cui il cinema viene rappresentato come “macchina dei fantasmi” in grado di riprodurre sul grande schermo la morte e l’eternità.
I curatori Morreale e Pierini hanno diviso il volume in quattro sezioni chiamate rispettivamente “A riveder le stelle”, “Sperduti nel buio”, “Un mestieraccio infame”, “Come in un film”. Per ogni sezione cercherò di raccontarvi le sensazioni che alcuni racconti mi hanno trasmesso e anche dei rimandi cinematografici utili anche a capire il contesto temporale e artistico.
Se “A riveder le stelle” è aperto da un dialogo tra Marilyn Monroe e Truman Capote compiuto durante il funerale dell’attrice shakespeariana Costance Collier e chiuso da un’intensa ode a Marlon Brando scritta da Joyce Carol Oates, il racconto che più mi ha colpito in questa prima parte del testo antologico è sicuramente L’imprudenza di Mario Soldati.
Scritto nel 1962 e contenuto nel volume compilatorio “Cinematografo”, L’imprudenza racconta l’avventura/disavventura amorosa di un noto attore italiano, A. Il riferimento ad Alberto Sordi è lampante tant’è che Soldati nelle prime righe scrive “A., il famosissimo attore comico italiano e romano, divo del teatro, del cinema, della televisione”.
La vicenda parte descrivendo la vita di A., solitario, viziato dalle proprie abitudini borghesi, che non ha fiducia del suo maggiordomo B. e fieramente credente, per arrivare a narrare, con toni vicini al thriller o alla ghost-story, un incontro tra A. e la sua ammiratrice segreta – dapprima conosciuta soltanto tramite telefonate e missive – in quel di Interlaken, Svizzera, di cui non vi riveliamo l’identità per non togliervi la sorpresa di questa gustosa lettura che mischia fiction ad una biografia applicabile alla maschera comica più famosa del secondo Novecento italiano.
“Sperduti nel buio” è la sezione che raccoglie le storie dal punto di vista degli spettatori che, per l’appunto, sperduti nel buio della sala vivono esperienze variegate. È il caso dei protagonisti della storia di Graham Greene intitolata Il film porno, scritta nel 1954, che vede i coniugi Carter rifugiarsi dentro un cinema dalla dubbia reputazione e vedere proiettato sul grande schermo un filmetto a luci rosse che proprio il marito aveva girato negli anni ’20.
Il volterrano – ma fiorentino d’adozione – Piero Santi invece ci racconta uno spaccato della vita fiorentina della metà degli anni ‘50 e dell’importanza sociale del cinema come punto di ritrovo nel suo Del Cinema Astra: un racconto composto da personaggi con la faccia scavata che sembrano quasi uscire da un film di Germi.
La punta d’eccellenza di questa parte del volume, a mio parere, è rintracciabile nelle delicate parole del colombiano Efraim Medina Reyes, autore di Cinema Albero. Con la definizione “Cinema Albero” Medina Reyes racconta una storia d’amore nata sull’albero costruito entro le mura del fatiscente Teatro Apollo. La nascita – e la conclusione – della relazione tra il giovane Efraim e Xiomara viene descritta con una dolcezza tutta sudamericana, anche se l’autore si è sempre distanziato dallo stile del realismo magico proprio della sua area geografica di provenienza.
La terza sezione è anche quella più triste, più introspettiva e in certi frangenti disperata o perversa: l’argomento è quello riguardante gli attori e del loro “mestieraccio infame”. È Guillaume Apollinaire che apre le danze con Un bel film, racconto del 1907, in cui vengono descritte le modalità di messa a punto di un film che oggi potremmo chiamare snuff-movie.
Questo perché nelle quattro paginette scarse il letterato francese racconta di come la Cinematographic International Company, compagnia fondata dal protagonista, aveva un unico obbiettivo: “proiettare film che suscitassero scalpore nelle principali città d’Europa e d’America”.
Quindi cosa fare? Commissionare un omicidio, filmarlo, far sparire le tracce e fare i soldi. Massimo Bontempelli, figura di spicco del surrealismo italiano, in bilico tra realismo magico e – come scrisse Luigi Baldacci sul Meridiano di riferimento all’autore comasco – realismo critico, è presente su questa antologia con La mia morte civile, testo che narra la vita di un attore che rivive sulla sua stessa pelle le sofferenze del personaggio che interpreta sul grande schermo.
L’ultimo quarto del libro è intitolato “Come in un film” ed è inaugurata da Il puritano di Horacio Quiroga, scrittore uruguagio, attivo nella prima metà del Novecento e quasi è un preludio a quel romanzo di Adolfo Bioy Casares da cui il nostro Emidio Greco trasse una delle opere più stranianti di tutto il cinema italiano degli anni ’70, ovvero L’invenzione di Morel.
Richard Matheson e James G. Ballard ci regalano due dei racconti più “teorici” dell’intera miscellanea, rispettivamente Montaggio e Lo zoom di sessanta minuti. La chiusura è affidata all’autore milanese Michele Mari che nella pagina di Non aprire quella porta elenca una serie di effrazioni che nella storia del cinema, soprattutto quello horror e thriller, rappresentano l’essenza del cinema stesso: “Non aprire quella porta. E io la apro. Non varcare quella soglia. Ed io la varco”.
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