“L’ora di ricevimento”. Lo scontro tra culture e la risata

Cosa spinge una persona qualunque a decidere di andare a teatro? Vuol esser sconvolta, sorpresa, in qualche modo istruita? Vuole che gli venga posta una domanda universale che però risuonerà per un paio di giorni nel proprio personale? O vuole essere intrattenuta, passare due ore divertenti e leggere per non dover pensare troppo a sé? A queste domande il testo de L’ora di ricevimento, di Stefano Massini, dà una risposta multiforme. Una risposta che si modella su chi diventa lo spettatore, e su quale sia la sua necessità nell’entrare a teatro. Ma anche una risposta infingarda, perché sebbene possa fornire intrattenimento a chi lo cerca e riflessione a chi la anela, darà comunque a entrambi gli spettatori un assaggio dell’opposto di quel che cercano. Anche al Teatro Verdi di Pisa la sera dello scorso 25 febbraio.

La drammaturgia di Stefano Massini, grazie anche alla regia di Michele Placido, tira fuori un’ironia mordente, quella del miglior e del peggior tipo: la comicità che strappa una risata al pubblico per poi ricordagli che sta in effetti ridendo di miserie umane. E in questo caso, di ragazzini di scuole medie inferiori, in quali vivono la miseria di un banlieue di Tolosa, e che combattono ogni giorno nello scontro ideologico tra etnie. Ragazzini la cui identità viene annullata dal loro insegnante, il quale li riduce a caratteri bidimensionali attraverso i soprannomi che questi gli attacca addosso fin dai primi giorni di scuola. Soprannomi che si ripetono negli anni, eliminando l’individualità dello studente.

Questa comicità trova il massimo della sua espressione nel monologo iniziale del professor Ardeche, interpretato molto bene dall’attore Fabrizio Bentivoglio. Successivamente, sebbene il testo fornisca la possibilità di creare lo stesso tipo di meccanismo comico, il tentativo di alleggerire i temi trattati attraverso la risata è in parte fallito, e quella che poteva essere una macchina umoristica di perfetta intelligenza è diventata, per eccesso di zelo nel tentativo di resa comica, un umorismo a tratti banalizzante dei temi e delle persone che derideva. Se nel monologo iniziale del professore il pubblico ride con i personaggi, più avanti si trova a ridere dei personaggi, annullando in parte l’aspetto geniale dell’ironia di Massini.

D’altronde della chiave comica dello spettacolo ci aveva già avvertito all’incontro col pubblico l’attore Francesco Bolo Rossini, interprete del personaggio di Saint-Pierre, professore di matematica alle prime armi. Ci aveva infatti consigliato di prestare molta attenzione al monologo del professor Ardeche perché, grazie a quello, avremmo potuto leggere lo spettacolo, che altrimenti poteva essere percepito come al limite dell’offensivo, come una critica all’incomunicabilità tra culture diverse, l’impossibilità di contatto tra i mondi degli studenti e quello del professore, arroccato dietro le parole di Voltaire e di Rabelais, ormai vuote, e dietro la sua polemica che da tempo è scollegata dalla realtà.

La direzione di Michele Placido ha permesso agli attori, come ci hanno raccontato nel corso dell’incontro, di creare immaginari potenti su cui poi costruire, quasi con metodo sperimentale, questi spaccati di umanità che si presentano all’ora di ricevimento del professore per poter parlare dei propri bambini. Personaggi transitori, che hanno lo spazio di una o due scene e scompaiono. Sperimentazione che, sebbene abbia permesso ottime prove d’attore ai membri anche più giovani della compagnia, passa un po’ in secondo piano agli occhi della maggior parte del pubblico, presa più dalla comicità che dalla qualità della resa scenica.

Dal punto di vista puramente tecnico, lo spettacolo aveva forse bisogno di un teatro più piccolo, non essendo amplificato, se non nel monologo iniziale. Un’ottima scelta per quanto riguarda la percezione del pubblico di chi sta in scena, che permette l’uso di una tecnica che va perdendosi nelle grandi produzioni, ma che, nel Teatro Verdi, ha messo alla prova gli attori, in particolare Bentivoglio – ritornato al teatro dopo una lunga esperienza nel cinema -, dovendo riempire con la voce uno spazio che nasce per l’opera lirica. Difficoltà che la compagnia ha affrontato egregiamente, senza permettere allo sforzo, anche fisico, di spegnere la forza della performance. Nonostante tutto, una maggiore vicinanza col pubblico avrebbe forse permesso un ascolto più significativo da entrambe le parti, reso difficile dalla grandezza del teatro. Ascolto che avrebbe potuto portare, aiutando gli attori, a una resa più equilibrata della comicità.

Nel complesso, L’ora di ricevimento è uno spettacolo che da allo spettatore la possibilità di ridere e riflettere, che pone domande forti con parole leggere, che mette in scena le parti più estreme dell’interiorità dello spettatore. Nel bene e nel male.

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