Intervista a Lorenzo Berghella, regista di Bangland, lungometraggio d’animazione, vincitore del Premio Siae alla 72° edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Lorenzo Berghella nasce a Pescara nel 1990. Dal 2009 al 2012 frequenta la Scuola di Cinema I.F.A. (International Film Academy) di Pescara. Scrive il soggetto di “Too bad“, che nel 2013 diventa un cortometraggio di cui cura la regia, la sceneggiatura, l’animazione ed il montaggio; nel 2014-2015 “Too bad” diventa anche una serie d’Animazione in onda sul web e in tv. Molti i riconoscimenti attribuiti a “Too bad“: Miglior film d’animazione al Mumbai ShortFilms’ Carnival, Miglior film al Berlin Short Film Festival, Bronzo all’ International Independent Film Award, Menzione speciale al L.A. Neo-Noir Film Fest, Premio al meritoper l’animazione all’Indie Fest, Premio al merito per l’animazione all’Accolade Global, FilmCompetition, Menzione per il Miglior Contributo Tecnico-Artistico all’animazioneall’Overlook CinemAvvenire di Roma.
Visto il successo conseguito da “Too Bad” in diversi festival internazionali, nel 20015 diventa anche un lungometraggio: “Bangland”
Bangland viene presentato alla 72° edizione della Mostra del Cinema di Venezia dove Lorenzo, all’interno delle Giornate degli Autori, riceve il premio Siae 2015.
Prima di tutto la tua passione per il cinema da dove nasce? E quella per il mondo dell’animazione?
Da quando ricordo, la passione per il cinema l’ho sempre avuta. Passione che, a dire il vero, mi è stata trasmessa da mio zio, un grande appassionato di cinema. Da ragazzino andavo a casa sua e passavo interi pomeriggio a guardare film in sua compagnia. Da quando ho memoria, ho sempre avuto una forte passione per l’arte, ancor prima di sapere leggere, sfogliavo i fumetti. Le storie raccontate per immagini mi sono sempre piaciute.
Per quanto riguarda la passione per l’animazione, invece, in realtà non l’ho mai avuta, direi che è stata semplicemente la diretta conseguenza della mia passione per il cinema. Quando ho iniziato a studiare all’I.F.A di Pescara, il mio insegnate, Cristiano Di Felice, che è anche il coproduttore di Bangland, insieme a Gianluca Arcopinto, mi ha indirizzato verso questa strada. Dopo avere condotti insieme alcuni esperimenti d’ animazione, ho continuato per conto mio e ho deciso di tentare di realizzare un cortometraggio di animazione.
Il linguaggio dell’animazione è una forma espressiva che ti appartiene in modo particolare?
Non so da qui a trenta anni, ma si per il momento si, mi sento molto a mio agio quando sono seduto e disegno immagini consequenziali. Credo che continuerò, anche perché questo linguaggio mi permette di esprimermi come non potrei fare con un film dal vero. mi consente di tirare fuori quella parte più creativa e mi da la libertà di sperimentare ciò che non potrei realizzare con il linguaggio del cinema dal vero, anche per i suoi costi eccessivi.
Bangland ottiene il premio SIAE al Festival del Cinema di Venezia. Cosa si prova a vincere un premio così importante al tuo esordio nel mondo del cinema? Te lo aspettavi?
Non so risponderti, ancora non me ne riesco a capacitare. Posso solo dire di essere felicissimo, mi sembra ancora tutto un sogno. Già solo essere arrivato a Venezia è stato qualcosa di inconcepibile, vincere andava al di à della mia immaginazione.
Allora raccontaci cosa ti ha regalato il premio ottenuto a Venezia? Sta facendo la differenza?
Non so se il premio ottenuto a Venezia possa o meno cambiare le cose, per il momento una cosa posso dirla però, ho ricevuto una proposta di lavoro che sto valutando e probabilmente senza Venezia non sarebbe mai arrivata.
Bangland è nato all’interno della scuola di animazione I.F.A di Pescara e grazie all’intervento del produttore Gianluca Arcopinto e del collettivo Mina è diventato un lungo di animazione. Da dove nasce questo progetto, come, dall’idea di una grapich novel, sei arrivato a realizzare il lungometraggio d’ animazione, visto a Venezia?
Il cortometraggio iniziale era già una versione molto compressa di quello che avevo in mente per il lungometraggio. In fondo ho sempre sperato che la mia idea potesse divenire un lungo di animazione, ma a darmi la spinta a farlo sono stati i produttori, Cristiano Di Felice e Gianluca Arcopinto. In realtà il team di lavoro dietro a Bangland si è semplicemente evoluto.
Tutto è partito dalla scuola di cinema I.F.A di Pescara, dove ho studiato. Tra i nomi del gruppo di lavoro, che mi ha affiancato, ci sono: Matteo di Simone, uno dei docenti della scuola, che ha dato un apporto significativo all’audio, Daniele Ciglia, direttore del doppiaggio, anche lui docente della scuola e Marco Palma, sound designer ed ex alunno della scuola. Direi che è stato un lavoro fatto in casa.
Bangland è però un unicum del suo genere. Dal punto di vista visivo, infatti, “Bangland” è il primo film d’animazione ad essere animato da un unico animatore che, oltre ad aver disegnato l’intero film, ha curato ogni singolo aspetto visivo dell’opera, dal design dei personaggi e dalle scenografie ad acquerello, fino alla regia e alla fotografia. Come sei riuscito a gestire i devesi aspetti della realizzazione di un film di animazione?
E’ stato un lavoro molto impegnativo. Per riuscirci ho dato un taglio netto alla mia vita sociale e mi sono dato al lavoro talmente tanto da ammalarmi, finendo anche in ospedale. Realizzare Bangland è stato un grande sacrificio, ma è questo che mi spinge a svegliarmi la mattina. Appena mi è stato detto che c’era la possibilità di realizzare un lungometraggio, non ci ho pensato due volte, anzi, forse ho anche mentito dicendo di essere in grado di arrivare a 60 minuti da solo. Ma alla fine, anche se non so come ho fatto, ci sono riuscito e lo rifarei lo stesso di nuovo. Anche perché, al di là della qualità della lavoro, avevo bisogno di fare Bangland, sentivo la necessità di tirarlo fuori, indipendentemente da Venezia, a prescindere da tutto.
Bangland esce fuori dai canoni del tradizionale film di animazione per la sua contaminazione di genere che mescola, all’interno di una narrazione corale, thriller d’azione, noir, satira e critica social. Volevo chiederti se nel tuo lavoro hai avuto un modello di riferimento cui ispirarti e se la forza del film stia proprio in questa peculiare contaminazione.
Un modello c’è ed è Watchmen di Alan Moore (il libro di fumetti più che il film). Direi che è stata quasi la mia Bibbia. La contaminazione sicuramente è un elemento importante in Bangland. Ma a dire il vero, non credo che il film stia avendo tutto questo successo, anzi.
Mi rendo che si tratta di un prodotto un po’ scomodo, nuovo e poco piacevole, anche in termini di visione. E non so fino a che punto questo gli porterà bene, forse un sacco di persone si fermeranno al fatto che Bangland non è un film convenzionale in nessun senso possibile. Ma io l’ho realizzato così non con l’intenzione di rompere gli schemi, la verità è che non avrei potuto fare niente di diverso da quello che ho realizzato.
Parlando del tipo scelte visive di Bangland… mi chiedevo se, nel tuo lavoro, la forma diventi funzionale al contenuto e fino a che punto volevi fare della tua storia anche momento per una forte critica sociale.
Si assolutamente, forma e contenuto si completano a vicenda. Per ciò che riguarda la critica sociale, anche questa è una componente centrale di Bangland. Ma, ad essere sincero, si tratta più un mio sfogo, di una denuncia sociale fatta di pancia più che di testa, mossa più dalla rabbia più che dal raziocinio. La forma si è semplicemente adattata al contenuto, anche perché non sarei in grado di mettere in scena in modo diverso da come faccio.
La colonna sonora del film è originale e la scelte delle musiche si rivela molto calzante rispetto all’andatura del film e alla realtà di degrado e corruzione che rappresenta. Cosa ci racconti di questa scelta?
La colonna sonora del film è una componente essenziale di Bangland. La musica è stata realizzata dai musicisti Fabio d’Onofrio, Alessandro Berghella e Marco Palma, che è anche il sound designer e nasce dalla collaborazione tra me e loro. Io buttavo giù un paio di immagini di ciò che avevo in mente e loro rielaboravano il tutto per farlo diventare musicale. La colonna sonora è come se fosse un altro personaggio del film ed è studiata, cercando i pezzi più adattabili al contesto. La maggior parte sono brani di musica blues tradizionale, rielaborati in chiave più dark e moderna. La musica fa di Bangland una sorta di musical postmoderno, anche perché la maggior parte delle musiche si trovano all’interno della scena. Nel film c’è chi canta, chi ascolta la radio e la musica non è mai fuori campo, ma sempre presente nella scena.
Dopo Bangland, ci sono aspetti sui cui lavorerai per la tua crescita artistica? Progetti futuri?
C’è tanto da migliorare, tutto da migliorare. Per quanto riguarda il futuro, sto lavorando ad un prossimo film, per ora solo in fase di sceneggiatura. Ci sono sol abbozzi di scene e dialoghi, senza tutta la storia. Si tratta di un noir surreale. Non sarà più un film corale, come Bangland, ma un film visto tutto dalla prospettiva di un unico protagonista, ma certi elementi di Bangland saranno sempre presenti perché fanno parte di me. Ci sarà sempre una certa critica e denuncia sociale, frutto della mia volontà di rappresentare il lato oscuro dell’essere umano.
Parlando del lato oscuro dell’essere umano. Volevo domandarti se e fino a che punto i tuoi personaggi rivelano qualcosa anche del loro autore.
Certamente, i miei personaggi parlano anche di me. Io sono un po’ tutti i personaggi del film, almeno una parte di me c’è in ognuno di loro.
Sei un giovane e promettente regista. Dare spazio a talenti emergenti, come il tuo, è importante. Fino a che punto credi che nel nostro Paese ci sia una sensibilità, da parte del pubblico e dall’industria cinematografica, per dare spazio a chi, come te, abbia voglia di raccontare storie con un linguaggio nuovo?
Di recente sono stato al Clorofilla Film Festival a Firenze, dove è stato proiettato Bangland. In sala c’erano solo 12 persone, tra queste, c’erano quattro ragazzi che sono rimasti molto colpiti dal mio lavoro e mi hanno regalato una speranza per continuare. Mi hanno fatto vedere che siamo in pochi, ma ci siamo. Siamo una minoranza e dubito che potrò mai arrivare ai grandi numeri di altri registi, però non mi interessa. Preferisco fare cinema per quelle poche persone che davvero apprezzano un prodotto nuovo, stufe di un certo tipo di cinema italiano omologato. E fino quando ci sarà anche solo una persona che vorrà apprezzare quello che faccio, credo che varrà la pena alzarsi e lavorare, anche solo per quell’unica.
Biancamaria Majorana
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