Lorenzo Guadagnucci: «Cos’era in fondo mio padre sopravvissuto alla strage di Sant’Anna di Stazzema nel ’44? Un profugo di guerra, un minore non accompagnato».
Una chiacchierata con l’autore a partire dal libro Era un giorno qualsiasi
PISA – «La ricerca della verità», ha scritto Lorenzo Guadagnucci nel sottotitolo del suo libro Era un giorno qualsiasi. Sant’Anna di Stazzema, la strage del ’44 e la ricerca della verità. Sagge parole. Lui la verità continua a cercarla da un bel pezzo, con fatica, ma lo fa. È tra i fondatori del Comitato Verità e Giustizia per Genova. Ha scritto, con Vittorio Agnoletto, L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova.
Ho letto la sua testimonianza sull’irruzione della polizia alla scuola Diaz:
«I poliziotti e i carabinieri sono entrati mentre stavamo dormendo. Ci hanno colpito con i manganelli, non si fermavano, sembravano impazziti. Hanno eseguito un pestaggio brutale e gratuito». (Noi della Diaz, p. 125)
Ecco, è semplice, fa il suo mestiere di giornalista, vede una bestialità, la subisce sul suo corpo e la scrive. Il corpo è sensibile. Le botte e le torture non si dimenticano, anzi, lo stress post traumatico si tramanda nel tempo, è ereditario. Incredibile.
Guardo Lorenzo mentre mangia lentamente un piatto di penne al pomodoro con due foglioline di basilico poco prima di presentare il suo Era un giorno qualsiasi, una storia lunga tre generazioni, altra frase chiave del suo libro. La prima penna, poi la seconda e così via. Me lo immagino alla scuola Diaz, dolorante e sporco di sangue, scena abbastanza raccapricciante. Però la scena, per il governo italiano, è come quella di un film, e il sangue di Genova è diventato pomodoro. Penne tricolori alla Diaz, un piatto indigesto. Ancora non sappiamo chi sono gli autori materiali degli abusi. Guadagnucci, torturato all’interno della Diaz, ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo ed è tra coloro che hanno rifiutato il risarcimento economico dell’Italia, perché «da cittadino, credo che il governo italiano debba fare i conti con le proprie responsabilità, che sono aver negato una vera giustizia alle vittime di Genova, non aver preso sul serio gli abusi commessi, non aver fatto nulla per prevenire il ripetersi di tali violazioni in futuro».
Ai primi di luglio è passata alla Camera la legge sulla tortura, anche qui ritorna il G8 di Genova e l’irruzione alla Diaz, non si capisce bene se con la nuova norma si configurerebbe come tortura oppure no, in molti dicono che è la legge è un passo nella giusta direzione, tu e altri sostenete invece che è un brutto passo falso. Perché questa confusione, è così difficile far emergere la verità?
«La nuova legge, anche per chi sostiene (a mio avviso sbagliando) che si tratta comunque di un passo avanti, “è una schifezza”, per citare il presidente di Amnesty International Italia. Il problema che abbiamo – un problema politico, ma anche etico e culturale, direi – è nel paradosso di approvare una legge sulla tortura sull’onda delle condanne inflitte all’Italia per il caso Diaz dalla Corte per i diritti umani di Strasburgo ma di definire un testo che, secondo undici magistrati genovesi, tutti impegnati in passato nei processi Diaz e Bolzaneto, non si potrebbe applicare a casi analoghi. I magistrati hanno scritto a Laura Boldrini, presidente della Camera, esaminando punto per punto la legge, al fine di mettere in guardia i deputati, ma il relatore della legge, onorevole Franco Vazio, ha reagito dicendo, testuali parole, che i magistrati non hanno letto il testo… Siamo di fronte a un corto circuito cognitivo, oltre che politico. Se aggiungiamo che il parlamento ha ignorato la richiesta del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa di cambiare la legge perché troppo lontana dalla Convenzione contro la tortura e piena di “scappatoie per l’impunità”, ecco che il quadro d’insieme diventa spiazzante: l’Italia, a mio modo di vedere, si sta allontanando a grande velocità dai migliori standard democratici e il fatto che organizzazioni come Amnesty International e Antigone scelgano di accontentarsi di quel che passa il convento-parlamento a me sembra una parte del problema. Si sta diffondendo un clima di desistenza, di rinuncia e alla fine di complicità con una deriva minimalista che non sta portando e non potrà portare niente di buono».
Per quale motivo la storia che racconti nel tuo libro Era un giorno qualsiasi si incrocia drammaticamente con la storia d’Italia, con i fatti di Genova?
«Per una ragione giuridico-giudiziaria e per un’altra più personale e familiare. Per il primo aspetto, il processo al tribunale militare della Spezia per la strage di Sant’Anna di Stazzema è stato molto innovativo; in precedenza, nei pochi processi per crimini di guerra, venivano imputati alti gerarchi (pensiamo a Reder, Simon, Kesselring), alla Spezia si scelse invece di chiamare in causa l’intera catena di comando operativa, dal capo Battaglione ai responsabili delle Compagnie, cioè tutti coloro che avevano svolto un ruolo di comando nell’operazione, rendendola possibile. Si trattava di personaggi di medio-basso rango nella scala gerarchica e non è detto che abbiano sparato, incendiato, lanciato granate quella mattina. Sono stati imputati e condannati all’ergastolo per il ruolo avuto nell’operazione. È lo stesso principio giuridico applicato dai pm Zucca e Cardona Albini nel processo Diaz: nella loro relazione finale, al momento di chiedere le condanne per agenti e funzionari di polizia, cioè per la catena di comando dell’operazione Diaz, citarono proprio il processo della Spezia sulla strage di Sant’Anna di Stazzema. L’altro aspetto riguarda una riflessione più personale. Nella stessa famiglia, nell’arco di tre generazioni, abbiamo vissuto un contatto diretto – tragico e mortale nel ’44, più lieve ma spaventoso nel 2001 – fra vite personali e fatti storici, subendo in entrambi i casi la violenza del potere, in tempo di guerra nel primo caso, in epoca democratica nell’altro».
Questo tuo libro è molto particolare perché letteralmente ci fa entrare in quella storia dell’agosto del ’44 vista dagli occhi di chi fortunatamente se ne salva. Parliamo della voce che ci racconta, chi parla in questo libro?
«L’io narrante è mio padre Alberto, che all’epoca aveva dieci anni. Si salvò disobbedendo alla madre: invece di restare con lei, mentre stavano per arrivare le colonne dei soldati tedeschi, scelse di seguire un amico che si era unito al nonno per nascondersi nel bosco, per timore del rastrellamento. Elena, sua madre, morì poi alla Vaccareccia, una delle frazioni di Sant’Anna, a causa delle ferite, dopo essere sopravvissuta al lancio di granate dentro una stalla. Mio padre ci ha messo sessant’anni prima di decidersi a raccontare che cosa era successo a Sant’Anna: lo ha fatto per iscritto, descrivendo quella giornata e anche pezzi della sua vita prima e dopo il 12 agosto ‘44. Tutta la prima parte del libro è basata su questi suoi testi, scritti grosso modo in coincidenza o subito dopo il processo della Spezia, diciamo fra il 2004 e il 2006».
Cosa succede ad Alberto a otto mesi dalla liberazione e poco dopo? In fin dei conti, nel corso del tempo la Repubblica italiana ha permesso a quel ragazzo di strada di diventare insegnante.
«La sua storia, dopo il ’45, è molto indicativa del clima che si viveva in Italia all’epoca. Lui – figlio di ragazza madre ripudiata dalla famiglia d’origine – era solo al mondo e fu aiutato da alcune famiglie, conoscenti della madre, che lo accompagnarono nel percorso di studi, che fu possibile grazie allo stato sociale: andò prima in un convitto per orfani di guerra a Carrara, dove frequentò il liceo classico; poi frequentò l’università, fino a laurearsi, grazie alle borse di studio e alla casa dello studente di Firenze. Diventò insegnante. Mia sorella Elena, che ha preso il nome della nonna, è nata nel ’60. Nel libro faccio dire all’io narrante: “ripenso a quei tempi non con nostalgia, ma con riconoscenza”. Era un’altra Italia. In fondo che cos’era lui nel ‘44? Un profugo di guerra, nonché minore non accompagnato».
Penso che una buona unità di misura per attribuire valore a un’opera sia il travaglio che è costato all’autore per crearla. Scrivere questo libro ti ha richiesto molto impegno, ci hai pensato su otto anni, hai incontrato molte difficoltà, ti è costato molto in ansie e turbamenti. Perché scriverlo è stato per te così difficile?
«Perché il tema è molto coinvolgente, riguarda il vissuto e il rimosso dei miei familiari, e perché ho scoperto quanto sia vero ciò che avevo letto in libri sui discendenti dei sopravvissuti alla Shoah, e cioè che il trauma con il relativo stress si trasmette attraverso le generazioni. I testi scritti dal mio babbo sono rimasti lì per anni, trovavo sempre una scusa buona per rinviare. Poi mi sono deciso, ma c’è voluto ancora tempo. Avevo cominciato a scrivere, ma ho buttato via i primi due capitoli, perché nel frattempo mi ero persuaso – grazie anche al dialogo con l’editore – che fosse necessario far entrare il lettore direttamente nella storia: è così che ho riscritto tutto facendo di mio padre l’io narrante. Questo ha comportato calarmi nei suoi panni, immaginare il suo vissuto, e non è stata un’operazione semplice».
Lorenzo, mi pare che il pensiero che cerchi di sviluppare nel libro è sul ripetersi, in contesti diversi, di tante Sant’Anna, e sostieni che per persone come tua nonna Elena, la memoria della Romagna, di Marzabotto delle Fosse Ardeatine e di tante altre stragi nazifasciste ci dovrebbe spingere a fare una considerazione in più rispetto al rifiuto del fascismo e del nazismo e ci dovrebbero condurre al rifiuto della guerra e della violenza.
«Sì, questo è il succo del dialogo che nella parte finale svolgo inserendo me stesso come interlocutore dell’io narrante. Credo che abbiamo bisogno di ripensare i luoghi della memoria prestando più attenzione a come hanno vissuto e a come sono morte le persone che fra il ’43 e il ’45 hanno perso la vita nelle stragi. Non si tratta di mettere in discussione la centralità della resistenza come radice morale della repubblica, ma di scavare più a fondo e di aggiungere un’altra prospettiva. Le stragi sono l’esito dell’espressione massima, direi incontrollata, del potere e della violenza in tempo di guerra: si distruggono vite – non solo umane, tanto che a Sant’Anna furono fucilate anche mucche, pecore e capre – perché si ritiene che siano vite che non contano. Perciò i luoghi delle stragi, secondo me, dovrebbero essere le sedi privilegiate di una critica collettiva e pubblica del potere e della violenza, quindi della guerra. Con la fine del nazismo e del fascismo non abbiamo affatto voltato pagina: finito il nazismo abbiamo avuto altre Sant’Anna, altre Marzabotto, magari geograficamente lontano da noi, ma a volte, se non spesso, con la complicità o la partecipazione del nostro stesso paese. Le stragi di civili inermi non sono state, nella storia del ‘900 (e in questo scorcio di XXI secolo), una specialità delle SS: sono anzi parte integrante di tutte le azioni militari, di tutte le guerre moderne. Credo che quando andiamo a Sant’Anna, a Marzabotto, alla Romagna dovremmo pensare a questo, sentirci responsabili di quanto sta accadendo a chi oggi si trova sotto le bombe in zone di guerra; dovremmo interrogarci su che cosa stiamo realmente facendo per proteggere, salvare, risparmiare quelle persone. In questo senso scrivo nel libro che i luoghi delle stragi devono farci stare male ed essere spazi fisici ed emotivi privilegiati per l’elaborazione di pensieri diversi e prospettive nuove. Io ho invece la sensazione che la memoria delle stragi abbia progressivamente disinnescato questo potenziale di cambiamento e di rottura, in favore di un approccio più retorico e consolatorio».
A fine maggio, insieme a un gruppo di persone ci siamo messi in cammino verso Sant’Anna di Stazzema attraverso la mulattiera di Valdicastello, abbiamo attraversato il bosco, poi abbiamo visitato Sant’Anna di Stazzema guidati da te e da Claudia Buratti, anche lei nipote di vittime dell’eccidio, i testimoni o sono vecchi o non ci sono più, questa camminata è un bel modo di tramandare la memoria, è stata una giornata molto bella ed è stato commovente leggere alcune pagine del libro su quei sentieri e in quei luoghi in un giorno qualsiasi, senza la retorica, la baldanza e a volte anche l’ipocrisia di certe visite ufficiali.
«Quello che abbiamo fatto – il percorso lungo la mulattiera, la sosta in alcuni luoghi a Sant’Anna leggendo spezzoni del libro – è stato un modo di avvicinarsi allo spirito del luogo con empatia e libertà, pensando alle persone che lì hanno perso la vita e provando a cogliere il messaggio che ci trasmettono. È un messaggio che mette in crisi, perché ciascuno di noi si sente piccolissimo di fronte alla crescente accettazione della violenza e al crescente distacco fra la vita delle persone comuni e le scelte compiute in nome della collettività, ma sono sempre più convinto che questo sia il modo migliore per rendere davvero omaggio, con spirito di fratellanza, alle persone che sono sepolte sotto il monumento-ossario».
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