Due maestri e l’inizio dell’era elettronica

L’inizio dell’era elettronica nel cinema: Antonioni e Coppola

In un saggio antologico del 1985 chiamato “Il nuovo mondo dell’immagine elettronica”, curato da Guido e Teresa Aristarco, trovava posto un testo di Liborio Termine e Franco Prono che recitava così: “E la prima cosa da sapere è questa: che l’elettronica e le altre nuovissime tecnologie cambieranno davvero la faccia del mondo e ci immetteranno in un universo culturale del tutto nuovo, sul quale oggi si può solo scommettere col rischio di sbagliare; ma che debbono ancora risolvere problemi così complessi che tutto quel che al momento riescono a darci sono arcaici musi di leoni tridimensionali attraverso l’ologramma e l’equivalente dell’arrivo del treno di Lumière nel cinema. Tron (che pure resta il primo film parzialmente realizzato in digitale) è un esempio; e Un sogno lungo un giorno è un diverso esempio di come la pubblicità abbia contrabbandato per «elettronico», creando confusione, ciò che solo nei programmi di partenza doveva essere tale e che tale non è stato per carenze tecnologiche: mancando l’alta definizione dell’immagine elettronica – quella televisiva attuale è baluginante, mosaicale, aberrante – il direttore della fotografia Vittorio Storaro ha imposto a Coppola di girare il film interamente in pellicola, per cui la sola opera interamente elettronica, anche se non digitale, che abbiamo resta Il mistero di Oberwald di Antonioni…”. Tutto questo cappello introduttivo è d’obbligo per contestualizzare i problemi relativi all’approccio di nuove tecnologie cinematografiche, in un periodo nel quale la sperimentazione poteva andare di pari passo con la produzione dei nomi più importanti del panorama cinematografico internazionale.

Nel 1979, Michelangelo Antonioni vive un periodo non proprio esaltante: i produttori non si fanno avanti e il film basato sul suo soggetto fanta-esodiaco “L’aquilone”, che doveva essere girato in Uzbekistan, non vide mai la luce soprattutto per motivi economici. È il nuovo incontro con Monica Vitti, sua musa per le storiche pellicole degli anni ’60, che gli risveglia la voglia di sperimentare attraverso l’uso di telecamere e nastro magnetico. La Vitti gli propone di realizzare per la RAI un dramma scritto da Jean Cocteau, La voce umana, lui accetterà la proposta dell’attrice romana ma a condizione di cambiare il testo di partenza; viene scelta L’aquila a due teste sempre di Cocteau, da cui Antonioni e Tonino Guerra scriveranno la sceneggiatura, ribattezzata Il mistero di Oberwald.

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Nel volume edito da Gremese nel 2002, dedicato al regista ferrarese, Aldo Tassone scrisse che dedicandosi ad un testo altrui, Antonioni potrà concentrarsi maggiormente sulle sperimentazioni espressive tramite l’uso elettronico del colore. Le sue parole sono più importanti di qualsiasi analisi: “Ho sentito il bisogno di usare il colore in modo funzionale alla narrazione…In Deserto rosso ho dovuto cambiare la faccia della realtà, violentarla, dipingerla materialmente. Con le telecamere tutto questo si può fare elettronicamente. Le apparecchiature elettroniche consentono di aggiungere, togliere, modificare il colore, di tutta o di una parte dell’immagine, mentre si gira il film…La telecamera consente, insomma, di immaginare di più”.

Questo grande spazio immaginifico concesso dalle apparecchiature elettroniche viene utilizzato in un film dove poco spazio è concesso alla riflessione psicologica, all’alienazione o all’incomunicabilità, visto che si tratta di un testo teatrale, ambientato nel 1903 e girato per larga parte in interni. Quale pretesto migliore di una favola popolare – affermò Carlo di Carlo – di un castello, di un bosco, di una regina, di un dramma d’amore e di morte? Quando ci sono re e regine di mezzo l’immaginazione della gente si mette subito automaticamente in moto. Come già detto, l’utilizzo di un testo non suo, aiutò il regista a non dare troppa importanza al testo drammatico e a portare a termine la sua missione sperimentatrice. Nell’intervento scritto per la rassegna «Cinema della televisione», Antonioni si mette nei panni di un pittore della modernità che, tramite le manopole delle consolle digitali, riesce a cambiare i colori secondo le proprie esigenze e, soprattutto, senza limitazioni. Inoltre, l’utilizzo di apparecchiature elettroniche dava al regista ferrarese l’onnipotenza e il controllo incondizionato su ogni aspetto tecnico del film (anche se sarebbe meglio chiamarlo video), tanto da arrivare a dire che “la sensazione demiurgica è molto più forte che nel cinema. Puoi fare tutto: sgranare la natura sino a renderla impalpabile, togliere un rossore dalle guance di Monica Vitti, far sparire e poi riapparire lentamente l’immagine, colorare come vuoi le facce e gli ambienti…far nascere l’alba nella notte”.

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Ma cosa significava girare in elettronico nel 1980? Ci viene incontro un articolo curato da Antonio Zollo su «L’Unità» del 3 febbraio 1983. Si parte analizzando la ripresa elettronica con telecamera a nastro magnetico: “con la pellicola, per vedere ciò che si è girato bisogna aspettare lo sviluppo e la stampa, col nastro magnetico si vede mentre si gira. In fase di montaggio il computer consente di simulare le soluzioni per poi scegliere quella che il regista e i suoi collaboratori ritengono la migliore…e si usano quantità ridotte di pellicole: serve soltanto quella necessario a riversarvi il film finito, registrato e montato”. Il riversamento da nastro a pellicola de Il mistero di Oberwald fu affidato ad un team losangelino, Image Transform, dotato di impianti a laser che leggono l’immagine sul nastro e la trasferiscono con assoluta fedeltà sulla pellicola.

Il mistero di Oberwald fu presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia del 1980. La scelta di non concorrere al Leone d’Oro fu data dalla natura sperimentale e pioneristica dell’opera: “non è infatti il caso di competere con altri film di registi che hanno potuto lavorare su pellicola e quindi in modo più vantaggioso per il prodotto cinematografico”. Fu proiettato in due versioni: su monitor, nella versione in nastro magnetico, a Palazzo Labia e sullo schermo della Mostra nella versione in pellicola.

Nel clima della cosiddetta “New-New Hollywood” dei primi anni ’80, in un periodo particolare per il cinema americano – basti pensare al fallimento della United Artists dopo il flop di incassi de I cancelli del cielo di Michael Cimino – Francis Ford Coppola tenta di mettersi in proprio. Tra il 1979 e il 1980 rimette in moto la macchina degli Zoetrope Studios e nel 1981 comincia a girare il musical-sentimentale Un sogno lungo un giorno (One From The Heart, Francis Ford Coppola, 1982). Una storia d’amore musicata da Tom Waits e Crystal Gayle, coreografata da Gene Kelly, che vede Teri Garr e Frederic Forrest rincorrersi, tradirsi (con Raul Julia e Nastassja Kinski), rimpiangersi e ritrovarsi nelle – finte – strade di Las Vegas. Il film, contrariamente a come molti pensano, fu girato in pellicola e non su nastro magnetico, tuttavia il grande direttore della fotografia Vittorio Storaro racconta come l’apporto dell’elettronica sia stato di fondamentale importanza per la realizzazione di questo affresco coloristico, tributo minnelliano al cinema classico.

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Fu Storaro stesso – già premio Oscar per Apocalypse Now – che convinse Coppola a non abbandonare definitivamente la pellicola e contemporaneamente ad impegnarsi nell’utilizzo di una rivoluzione elettronica e coloristica. Il film «elettronico» di Coppola fu così realizzato, commenta Storaro: “abbiamo costruito il film a strati: prima l’aspetto letterario, quindi la registrazione del sonoro, poi abbiamo fatto una specie di cartone animato, filmando schizzi e disegni delle diverse scene. A questo punto abbiamo girato in bianco e nero ed infine siamo passati al colore; tutto il tempo che si perde nello sviluppo, nel montaggio e i soldi che si sprecano per i metri di pellicola inutile, così, non esistono più”.tumblr_mn3skyDid21s0vozto2_1280

Il film risulterà essere un flop clamoroso, quasi al livello del già citato film di Cimino; Coppola dirà che il pubblico e la critica americana sono rimasti fermi al passato, legati ad un naturalismo che è finito da un pezzo: “mi hanno preso in giro perché ho ricostruito Las Vegas in studio per il mio film. Non hanno capito che avevo bisogno di luci, di fondali di strade assolutamente finte. L’amore è un gioco d’azzardo, come Las Vegas: un giorno sei alle stelle e un giorno sei per terra. Ecco io ho voluto che questa città apparisse agli spettatori come la vedono i protagonisti del mio film”.

La convinzione di un prosperoso futuro per il cinema elettronico è quello che risulta dalla lettura delle testimonianze di Antonioni e Coppola. Come abbiamo visto, i due registi sono incappati in progetti abbastanza sfortunati, tuttavia la strada imboccata era quella verso il futuro, in un periodo nel quale esso aveva i piedi ben saldi nel presente, paradossalmente più di adesso.

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Tomas Ticciati
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