“Lo chiamavano Jeeg Robot”, Mainetti convince pubblico e critica

Dopo la presentazione alla Festa del Cinema di Roma del 2015, Lo chiamavano Jeeg Robot, primo lungometraggio del regista e attore romano Gabriele Mainetti, è arrivato finalmente nelle sale cinematografiche il 25 febbraio. La sensazione è che un film di questo tipo sia ciò che mancava all’attuale panorama tricolore ad un livello mainstream.

locandina tratta da www.luckyred.it Mainetti

Locandina promozionale tratta da www.luckyred.it

 

Già dalla locandina si intuisce che c’è qualcosa di notevole dietro a questo strano titolo: uno stile grafico importante, un logo realizzato con un font incisivo, caratteri giapponesi in bella vista, un potpourri di tentazioni grafiche vicine allo stile retrowave e finalmente lontane da quei bianchi e rossi così asettici e imbarazzanti delle locandine dell’ultimo lustro.

Entro questa cornice pop, vagamente retrò, ammiccante e smaliziata sono contenuti tutti i protagonisti di questo action-movie d’ambientazione romana ma dal respiro internazionale: Claudio Santamaria nei panni di Enzo, Luca Marinelli in quelli dello Zingaro e Ilenia Pastorelli nel ruolo di Alessia. Lo chiamavano Jeeg Robot può essere analizzato e goduto come un film d’azione, dove il ruolo della città sconvolta dalle bombe cammina di pari passo alle gesta del protagonista, che, caduto in una zona del Tevere contaminata da materiale radioattivo, acquista poteri di forza e potenza.

La prima sfida vinta da Mainetti è quella di essere riuscito a incanalare i poteri di Enzo in una storia che si tiene lontana da quel manicheismo spicciolo che striscia in larga parte dei film dalla medesima tematica. In questo modo la separazione tra buoni e cattivi è sì presente a livello morale (e non moralistico) ma non è così lampante e tagliata con l’accetta.

Il secondo traguardo di rilievo è quello di essere riuscito a confezionare un film di genere nel quale il genere non mangiasse il messaggio e, viceversa, il messaggio (sociale, politico, razziale) non risultasse fagocitatore del genere. Basti pensare ad un film come Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores dove l’azione lambisce il film per brevi intervalli e che quello che rimane di quel film è soltanto il messaggio – nobilissimo – in chiave anti-bullismo. Mi ricordo che all’uscita del film di Salvatores la stampa non faceva altro che reiterare la frase «il primo cinecomic italiano!». E il Diabolik di Mario Bava? Il Kriminal di Umberto Lenzi? Satanik di Piero Vivarelli? Semplicemente spariti dalla vulgata comune, volontariamente fatti dimenticare ai più giovani che abbisognano solo di eroi appartenenti alla propria generazione.

In realtà, come è stato ben detto da Marco Cacioppo di Nocturno, quel film – modesto, ma neanche troppo brutto – non ha avuto il primato di essere il primo cinecomic italiano bensì quello di non avere «fumetti o libri di partenza», risultando alla fine un gradevole coming-of-age film per un target di pubblico under-18.

Mainetti non ha bisogno di barare – e la sua carriera di regista di corti come Basette o Tiger Boy lo stanno a dimostrare – e memore della lezione impartita dal cinema di genere italiano, aggiungendoci un po’ di Claudio Caligari, un po’di Marco Risi d’antan e un po’ di Takashi Miike (come è stato dichiarato da Mainetti stesso), riesce a confezionare un film che non vuole essere la banale risposta italiana al filone Marvel/DC quanto una rappresentazione pop e fantastica della vita criminale in periferia.

Dall’ultima opera di Caligari (Non essere cattivo) proviene anche la seconda sfida vinta da Mainetti: ovvero quella di cucire sulla persona del bravo Luca Marinelli un perfetto antagonista amante delle cantanti italiane degli anni ’80 (Oxa, Nannini, Bertè) e dei trans, che non si fa problemi a spaccare la testa di un suo collega di rapine con un iPhone e che muore dall’invidia per i poteri acquisiti da Enzo. Rimanendo nella sfera dei personaggi, è da premiare anche la scelta di Ilenia Pastorelli: dietro a quella dentatura larga e a quella parlata un po’ alla Micaela Ramazzotti, c’è tutta la volontà di Mainetti di renderla possibilmente più vicina al mondo degli anime, grazie ai suoi occhi grandi e alla sua personalità disturbata.

Se c’è un’opera recente che può essere accostata a questa piccola gemma di Mainetti è sicuramente Song’e Napule dei – quasi omonimi – Manetti Bros. Non per la tematica trattata, ma per la fantasia pop citazionistica che diverte, per lo stare sempre sopra le righe non per un vezzo di superiorità ma per natura stessa della volontà di affermare la propria poetica.

Se il genere all’italiana, in sala, è sconfitto e sopraffatto dai film di quarantenni intorno ad un tavolo che si nascondono i segreti su WhatsApp, rimane la speranza che progetti come questo abbiano il “potere” di fungere da lasciapassare per altri registi che meriterebbero la sala e non solamente il mercato del web. Mi sto riferendo ai vari Gionata Zarantonello, Domiziano Cristopharo, Federico Sfascia, Lorenzo Bianchini. Senza dimenticare che è stato annunciato Ballad in Blood, il nuovo film di Ruggero Deodato: il terrore che rimanga confinato in territori lontani dalla sala è alto.

Tomas Ticciati

Tomas Ticciati
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