Manon Lescaut è uno di quei titoli che tutti noi abbiamo nell’orecchio, anche chi non l’ha mai ascoltata. All’interno del corpus pucciniano è forse una delle opere più misteriose, complesse e musicalmente “difficili” del Maestro lucchese ed è parimenti quella che ha attirato su di sé le maggiori critiche circa la drammaturgia e il libretto stesso.
Quest’opera, la terza di Giacomo Puccini, è stata la prima a ottenere un ampio successo da parte del pubblico (anche internazionale) ma per essere adeguatamente compresa deve necessariamente essere inserita nel contesto degli “esperimenti operistici” portati avanti da un Puccini che non ha ancora ben individuato un proprio percorso artistico ed estetico. Manon Lescaut ricopre infatti un ruolo centrale nell’evoluzione della drammaturgia puccininana perché proviene dallo stesso filone geneticamente connotato da ricerca e sperimentazione che ha generato le prime due apparizioni di Giacomo Puccini nel teatro d’opera – Le Villi ed Edgar – ma allo stesso tempo contiene già quei semi pronti a germinare nelle successive opere: La bohème, Tosca e Madama Butterfly, in cui questi semi non solo hanno germinato ma hanno pure prodotto frutti maturi.
Se è vero, come dice Riccardo Chailly, che è Tosca «l’opera della svolta» (le cui implicazioni si riverberano naturalmente sulla successiva Butterfly), è altrettanto vero che le prime avvisaglie di questa svolta si avvertono già in Manon Lescaut, nonostante la genesi particolarmente travagliata del libretto ha poi inficiato il risultato complessivo. È proprio il libretto – come già accennato poc’anzi – a suscitare più di qualche perplessità da parte di pubblico e critica, oggi come allora, e giustamente perché il libretto dell’opera è passato per almeno quattordici mani: da quelle di Marco Praga a quelle di Domenico Oliva, a quelle di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, a quelle di Ruggero Leoncavallo e, per concludere, addirittura a quelle dello stesso Puccini e dell’editore Giulio Ricordi. Ha perfettamente ragione quindi il musicologo Mosco Carner a definire la Manon Lescaut una «composizione screpolata» perché una simile varietà di autori (che ha poi costretto a pubblicare il libretto senza attribuirlo ad alcuno, anonimo) ha fisiologicamente portato a ottenere un risultato tutt’altro che omogeneo, anzi, a ogni rimaneggiamento il revisore cercava di imporre il proprio gusto e la propria estetica sul precedente lavoro del collega. Oltre a questo è necessario ricordare che che il libretto è tolto dal romanzo (invero piuttosto stucchevole)Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut, scritto nel 1731 da Abbé Prévost, e che il medesimo romanzo era già stato traposto in opera già almeno due volte, con la Manon Lescaut di Daniel Aubert e con la più che fortunata Manon di Jules Massenet.
In questo caotico turbine di nomi, versioni e revisioni, romanzi e opere, viene naturale domandarsi di chi sia veramente figlia questa travagliata Manon Lescaut. Potrà sembrare banale, ma il suo unico e autentico padre è chi le è sempre stato sempre fedele all’interno di questo teatro di comparse e apparizioni e cioè Giacomo Puccini. Come già detto, la schizofrenia del libretto e la sua debolezza in determinati punti ha certamente inficiato il risultato complessivo dell’opera, che avrebbe potuto essere molto migliore, ma ci mostra con assoluta chiarezza che Puccini aveva ben chiaro «il sugo della storia» e che in quel caotico avvicendarsi di penne e stili è riuscito a mantenere con fermezza la sua visione del romanzo di Prévost che si può efficacemente sintetizzare in una frase che il compositore stesso ebbe notoriamente a dire sulla Manon di Massenet: «Lui la sentirà alla francese, con cipria e i minuetti. Io la sentirò all’italiana, con passione disperata». È questa la frase da tenere a mente se si vuole ben comprendere l’essenza di Manon Lescaut, un’opera sanguigna e intrisa intimamente di quella che il grande Fedele D’Amico definisce «passione amorosa […] minata alle radici, dannata in sé e per sé, tanto più dannata quanto più violenta: un evento organicamente tragico». Per questo si accoglie tanto volentieri la definizione di D’Amico della Manon Lescaut come “il Tristan und Isolde italiano”: «[…] è il nostro Tristano. Un Tristano istintivo, non problematico, senza implicazioni cosmiche, formato ridotto; precisamente quel tipo di Tristano che l’opera italiana poteva produrre».
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