Manon Lescaut, ossia l’autodistruzione della giovinezza

PISA – La stagione lirica 2016/2017 del Teatro Verdi di Pisa si avvia verso la sua conclusione con l’avvicinarsi del penultimo titolo del cartellone: Manon Lescaut. Il celebre melodramma pucciniano è stato presentato al pubblico pisano in Sala Titta Ruffo durante la consueta presentazione-aperitivo sabato 11 marzo, in cui sono intervenuti il M° Stefano Vizioli, il M° Alberto Paloscia e il regista Lev Pugliese

«Manon Lescaut – ha esordito Vizioli – è senza dubbio tra le opere più ambigue di Giacomo Puccini, anche in rapporto alla sua biografia musicale: si colloca subito dopo l’esperimento de Le Villi e di Edgar e si trova quindi nel pieno di quel percorso di ricerca della propria identità artistica e della propria estetica, un percorso destinato a concretizzarsi poi nella successiva opera, La bohéme». La tormentosa ricerca del compositore si riflette anche sulla genesi di Manon, resa ancor più complessa dal problema del libretto che, come ha ricordato Vizioli – «risulta praticamente anonimo (così è stato pubblicato da Ricordi) e anche un po’ schizofrenico nel suo complesso a causa dei molti autori che vi hanno lavorato – da Luigi Illica a Domenico Oliva, a Marco Praga, a Ruggero Leoncavallo – e per il fatto che ognuno di questi ha cercato di imporre all’opera la propria estetica, tenendo anche presenti gli altri adattamenti operistici. Il soggetto da cui è tratto il libretto, cioè il romanzo di Abbé Prevost, aveva già generato altre due opere sulla storia di Manon Lescaut: la Manon Lescaut di Daniel Aubert e la Manon di Jules Massenet».
Nonostante i precedenti musicali, Puccini aveva individuato l’opera in un’ottica del tutto personale, tanto da riferirsi a Massenet in questi termini: «Lui la sentirà alla francese, con cipria e i minuetti. Io la sentirò all’italiana, con passione disperata». Questa è la chiave di lettura dell’opera che spesso è stata soprannominata “un Tristano e Isotta all’italiana”, ossia il focus sull’energia di questi due ragazzi, sulla loro ardente giovinezza che li porta a logorare ogni cosa, persino loro stessi.

Un momento della presentazione

Più storico e umanistico l’approccio del M° Paloscia, direttore artistico del Teatro Goldoni di Livorno, che ha notato una curiosa regolarità nelle rappresentazioni di Manon Lescaut nel circuito dei teatri di Pisa, Lucca e Livorno: il titolo pucciniano fa ritorno ogni dieci anni (difatti l’ultima rappresentazione risale al 1996). Il M° Paloscia ha inoltre sottolineato l’importanza storica del momento in cui è stata composta l’opera: «Siamo quasi nel dopo-Verdi e in Italia, precisamente ne 1890, nasce con l’opera Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni una nuova scuola musicale, la cosiddetta Giovane Scuola che sarà di fondamentale importanza per l’opera del primo Novecento. Bisogna anche ricordare quale importante impulso abbia dato la Toscana a questa Scuola, di cui facevano parte, tra gli altri, non solo Mascagni ma anche Puccini e Alfredo Catalani». Il direttore artistico del Goldoni ha anche colto l’occasione per rimarcare un particolare che – sebbene sia piuttosto scontato – sembra parimenti sfuggire a molti e cioè che nonostante molte e reali differenze, Puccini e Mascagni si trovino in fin dei conti su posizioni molto simili, ma semplicemente le raggiungono o sostengo passando per strade diverse, come può suggerire un ascolto del Guglielmo Ratcliff, composta da Mascagni ma innegabilmente vicina alle istanze pucciniane.

Il terzo e ultimo intervento della presentazione ha permesso al pubblico di avere “in anteprima” uno squarcio sul sipario attraverso cui sbirciare la regia, raccontata dallo stesso Pugliese. «Ogni volta che mi metto al lavoro su un’opera – ha spiegato il regista – cerco sempre di visualizzarla nella mia mente già dall’inizio. In questo particolare caso mi ha colpito la famosa landa desolata dell’Atto IV e ho cercato di risalire a vari significati, come “abbandono”, “vuoto d’ogni cosa” e su questa base ho costruito un percorso di ricerca di qualcosa di effimero, non voglio usare il termine “consumismo”, ma è la ricerca di un qualcosa in più che ancora non si possiede ma che non ci si riesce a rendere conto di cosa sia e quindi questa ricerca non soddisfa. Per rendere ancor più chiara questa ricerca ho deciso di ricorrere a una sorta di flashback, come se la narrazione dell’opera avvenisse per ricordi; proprio per questoho deciso il coro e alcuni comprimari indossassero particolari costumi, omologati se vogliamo, un po’ come quando si ripensa a una cena al ristorante avvenuta anni prima: alcuni dettagli rimangono molto chiari, ma i volti iniziano a sbiadire, gli abiti delle altre persone perdono molti dettagli; insomma, persone che vivono solo nei ricordi sbiaditi perché non influiscono nella storia di Manon. Ho adottato anche un particolare uso dei colori, per suggerire cromaticamente alcune sensazioni o alcune caratteristiche dei personaggi, ma non voglio entrare troppo nel dettaglio, preferisco che il pubblico che assisterà all’opera possa godersi ogni sorpresa della regia e della scenografia proprio qui, a teatro».

 

Luca Fialdini
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