Il rapporto tra il grande pubblico e la musica colta è in piena crisi, perché spesso il primo preferisce altre tipologie di musica o si accontenta di un approccio superficiale alla seconda. In particolar modo la musica contemporanea è stata bollata con l’etichetta di incomprensibile, inavvicinabile. Ma è giusto fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio? Se fosse vero in assoluto, come si spiega la grande partecipazione a eventi come la stagione di opere da camera del Teatro Verdi di Pisa, dove sono state rappresentate ben quattro opere contemporanee e che, oltretutto, hanno sempre registrato ottimi riscontri di pubblico e critica? Per risolvere questo (apparente) ossimoro, ci dà uno spunto il compositore Marco Simoni, uno dei protagonisti del ciclo cameristico del Verdi con l’opera The Lyric Puppet Show, andata in scena lo scorso 21 gennaio; l’artista fornisce un’interessante panoramica su uno dei problemi più attuali dell’arte contemporanea: l’arte come veicolo del messaggio e la reazione del pubblico.
Quando si parla di “musica contemporanea”, il pubblico inizia a storcere il naso. Non è un mistero che il concettualismo esasperato della seconda metà del XX secolo abbia allontanato il grande pubblico dal mondo della musica classica contemporanea, a cui ormai è stata affibbiata l’etichetta di “incomprensibile”. Qual è il suo rapporto con il pubblico e, soprattutto, con il suo gusto?
«Devo dire che, in genere, il mio rapporto col pubblico è piuttosto buono. Però non sento mai come problema il rapporto con gli ascoltatori. Quando scrivo musica cerco di porre la massima attenzione su che cosa voglio comunicare e, immediatamente dopo, su come farlo. Una volta scelti questi parametri su cui impostare il lavoro, se l’idea che c’è dietro al pezzo che sto scrivendo è chiara e mi convince, di solito funziona bene anche il pezzo, e il pubblico in questo caso reagisce bene».
Si è specializzato in musica elettronica alla Civica Scuola di Musica di Milano. Che apporto può fornire alla musica contemporanea? Può rappresentare un rischio di allontanare ulteriormente il pubblico da un’arte ritenuta fin troppo compromessa dall’intellettualismo?
«Dopo il diploma ho voluto approfondire le problematiche e le possibilità legate all’elettronica usata in campo musicale, con un occhio particolare sul live electronics. Credo che la musica che fa uso dell’elettronica non debba essere definita “musica elettronica” più di quanto la musica che usa solo strumenti tradizionali debba essere definita “musica meccanica”. In altre parole: non è il mezzo usato che definisce la musica. Ci sono compositori che sentono il bisogno dell’uso dell’elettronica, a volte anche massiccio, per la loro musica. Io per esempio non sento questa necessità, salvo casi molto particolari. Ma, anche qui, non ho alcuna avversione di principio: è solo una questione di estetica e di linguaggio».
Durante le scorse stagioni liriche del Teatro Verdi di Pisa sono state rappresentate – con ottimo successo – due sue opere da camera, “Si camminava sull’Arno” e “The Lyric Puppet Show”. Durante la composizione tentava già di prevedere quale sarebbe stata la reazione del pubblico a una scrittura “moderna”, aggiustando quindi il tiro per non pretendere troppo da una platea non specializzata, o ha preferito seguire una propria idea e valutare le reazioni direttamente la sera della “prima”?
«No, come ho detto prima, non penso innanzitutto alla reazione del pubblico, ma al messaggio che desidero trasmettere. D’altra parte, io non scrivo per un pubblico di specialisti o di “addetti ai lavori”, perché ritengo che questa scelta sia ghettizzante, e credo sia necessario uscire da questa logica – peraltro ormai assai superata – se si vuole recuperare il rapporto col pubblico. D’altra parte ritengo altrettanto imperativo, nello scrivere, mantenere un rigore estetico e stilistico, evitando di scadere in soluzioni facili che hanno poco spessore e un sapore ruffiano».
Parlando di opera, mi viene in mente una frase che Giuseppe Verdi era solito ripetere ai compositori che eccedevano in concettualismi: “La melodia è eterna”. Questa idea trova spazio nella sua poetica musicale? E con quale valore?
«Dall’epoca di Verdi il mondo è cambiato davvero, e molte volte. Forse oggi Verdi non direbbe esattamente quella frase, però penso che il senso generale sia condivisibile, ossia non si può pensare la musica senza pensare al modo in cui verrà comunicata. Trovo molto giusto lavorare sul pensiero musicale prima di scrivere, e io lo faccio sempre e talvolta piuttosto a lungo, perché questo mi consente di ordinare le idee sulla musica stessa. Occorre però porsi sempre il problema di come tradurre il pensiero in modo efficace e, in qualche modo, recepibile dall’ascoltatore. Eccedere nel concettualismo senza porsi domande su chi ascolta significa avere un atteggiamento troppo concentrato su se stessi».
Un tempo il pubblico chiedeva costantemente nuove sinfonie, nuove opere, nuovi concerti; oggi gli spettatori preferiscono ricorrere alla musica del passato, musica già scritta. Ci sono ancora occasioni in cui la musica contemporanea possa tornare ad occupare un posto di primo piano nel panorama culturale moderno?
«Le occasioni per la musica contemporanea non sono moltissime, almeno in Italia (in altri Paesi la situazione è diversa, ma comunque il panorama è piuttosto variegato). In questo contesto i compositori devono cercare di proporre loro stessi occasioni, diventando in un certo qual modo imprenditori di se stessi e di eventi musicali, evitando di attendere mecenati o fondi pubblici. Non possiamo perdere tempo lamentandoci della situazione in cui ci è dato vivere, né attendere passivamente tempi più felici: dobbiamo rimboccarci le maniche e capire quali sono le nuove vie della musica del futuro, associandola magari ad altre forme d’arte (penso per esempio alla danza, al teatro, alle immagini) o ad altre attività umane (il vino, il lavoro, l’arte figurativa). Ciò che guiderà questi tentativi deve essere la ricerca della bellezza, lo stupore di fronte alla bellezza. Non credo che esistano strategie, politiche o scaltrezze organizzative, pur necessarie, che possano sostituire la ricerca della bellezza, se fatta con sincerità, con costanza, direi quasi con ingenuità. Stravinskij diceva che “abbiamo un dovere nei confronti della musica: inventarla”; nel mio piccolo ne sono convinto anch’io».
Luca Fialdini
lfmusica@yahoo.com
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