La voce che si trasforma in musica, Marina Mulopolos
Venerdì 5 dicembre Marina Mulopolos ci ha intrattenuti con la sua metamorfica e camaleontica voce per circa un’ora dal palco dell’Exwide. Seduta su una seggiola con un tavolino, una pedalina per modulare la voce e creare i loop, piccoli strumenti a percussione e due microfoni, era sola davanti a molte persone, sola senza altri artifici che accompagnassero la sua performance. Marina è un’artista poliedrica: cantante, ostessa, ex voce degli Almamegretta, cuoca, insegnante d’espressione vocale, ha studiato all’Accademia delle Belle Arti a Firenze, si occupa di scenografia, talvolta recita, ama il funky, canta attualmente nei Tilak tra musica indiana e drum’n bass. Ma sopratutto lavora la sua voce in maniera incredibile, e venerdì ci ha dato un assaggio della sua creatività.
Il locale è pienissimo e Marina inizia a cantare. Cantare è un verbo difficile da usare nel suo tipo di musica: lei canta certo, ma prima crea cantando, ovvero modula la sua voce come una base a forza di sovrapposizioni sonore che lei stessa genera attraverso la sua voce distorta da un’evidente mimica del volto e da alcuni accorgimenti usati per modificarne il suono.
Prima Marina crea una modulazione sonora, la registra e la manda in loop: a questo punto siamo tutti consapevoli che quello che sentiamo è uscito dalla sua bocca ed è stato registrato, è voce umana, ripetuta all’infinito dal registratore per i loop. Successivamente Marina sovrappone alla prima base un altro vocalizzo che si armonizza melodicamente col precedente e così via: armonizzazioni di terza, di quinta etc. Il loop continua, e la base musicale cresce: Marina aggiunge altri suoni come piccole grida, acuti, soffi, gemiti, respiri, schiocchi e altri suoni onomatopeici che gradualmente confondono chi ascolta e arricchiscono l’atmosfera.
A questo grado di composizione, quando il loop assume la consistenza di una base musicale melodica complessa, con vocalizzi che nella ripetizione si spersonalizzano e diventano delle percussioni ritmiche, Marina inizia a cantare e il risultato è spiazzante. La mente si confonde immediatamente e inizia a percepire il loop di vocalizzi come una base altra, non più creata dalla voce umana ma come un qualcosa di pre-registrato, nonostante si sia assistito direttamente al processo di creazione. Si crea così un’Illusione uditiva perché la voce di Marina, che questa volta canta davvero la melodia, è percepita realmente come unica traccia di voce umana, mentre il resto appare estraneo. Voce umana e voci/suoni “artificiali”, o meglio sentite come artificiali, si sovrappongono perfettamente e qui nasce la canzone che nel suo svolgersi conosce ulteriori mutamenti e viene sempre condotta con estrema attenzione e precisione. La voce è sempre tersa, perfetta e gli errori inesistenti, poiché tutto, tutto il brano dipende unicamente dalla cura e dalla bravura della performer.
Marina crea così una canzone davanti ai nostri occhi e dà vita ad una performance attiva che invita il pubblico ad allenare le proprie capacità percettive. Lei canta in italiano, ma anche in greco e talvolta si lascia andare a lunghi vocalizzi e glissati morbidi e caldi che richiamano la voce della prima Sade, quella più graffiante e jazz di The Sweetest Taboo. Le canzoni di Marina sono lunghe melodie mediterranee, dolci e potenti allo stesso tempo, e la sua voce passa in pochi secondi da strilli acutissimi a lunghe note basse della black music. Spesso si picchietta la gola o passa ritmicamente il dito sulle labbra per dar corpo a suoni gutturali innaturali, soffia tra le mani come per rievocare il rumore del mare, ti culla lentamente e ti rilassa attraverso tonalità leggere e morbide che richiamano lo swing e la musica popolare greca, quella della sua terra, teneramente malinconica come quella rievocata dal compositore Nikos Xydakis, ma decisamente con uno stile più grintoso e blues.
E a Marina la grinta non manca. Spiritosa, ironica, ha saputo anche intrattenere il suo curioso e timido pubblico: ogni tanto chiamava qualche amico, faceva domande a degli sconosciuti, chiedeva se quello che stava facendo era apprezzato, se volevamo fare delle pause, se volevamo salire sul palco, se ci stavamo annoiando, se eravamo divertiti. Sapeva ben condurre lo spettacolo, consapevole della particolarità del suo lavoro che sicuramente spiazzava per la frugalità visiva e colpiva emotivamente nel profondo per la complessità uditiva e sensoriale.
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